Dalla Salò del Cinquecento emergono due illustri umanisti
ottobre 23, 2015 in Recensioni da Mario Baldoli
A Salò, due amici, illustri umanisti del Secondo Cinquecento, si incontrano oggi stupiti. Le loro opere, coperte per cinque secoli dal tempo, emergono inattese. Li fa incontrare il prof. Riccardo Sessa in una bella traduzione con testo latino a fronte, trascrizione, commento e bibliografia in due volumi, uno per ciascuno: Tragedie del Gratarolo e De hortorum cultura e altre opere del Voltolina, ed. Liberedizioni.
Eppure nella Salò del tardo Rinascimento, devastata da guerre, epidemie, conflitti tra famiglie, corruzione e banditismo, fiorisce una splendida vita culturale.
Le scuole formano “dopo diligente esame, Dottori e Nodari”, i forestieri vi giungono a imparare le scienze (Gratarolo).
In città i due amici incontrano Silvan Cattaneo, Jacopo Bonfadio, i fratelli Bellintani, lo scultore Pietro da Salò, Gaspero Bortolotti, l’inventore del violino.
Giuseppe Milio Voltolina (1536-1580 circa) fonda l’Accademia degli Unanimi (1564) da cui origina l’Ateneo di Salò che l’anno scorso ha celebrato i suoi 450 anni mantenendo l’antico patrimonio librario e l’antica insegna: api ronzanti col motto: fidem ardor.
All’Accademia aderisce anche Bongianni Gratarolo, cui Voltolina dedica la sua opera principale. Leggono e commentano filosofi e scrittori greci e latini, una sorta di Orti Oricellari, lì trasferitisi da Firenze.
Fra loro Gratarolo (1519-1597) è l’unico rimasto noto, ma solo per la Historia della Riviera di Salò, una preziosa fonte favolistica e geografica.
L’opera principale del Voltolina è il poema De hortorum cultura, tre libri sulla coltivazione dei campi. Insegna come coltivare la terra, l’ordine e la suddivisione dell’orto affinchè vi sia libero il passeggio, il terreno preferito dagli alberi, come raccogliere piantine e frutti, le virtù medicinali delle erbe, mentre qua e là spuntano richiami ai miti greci. Un lavoro paragonato a suo tempo al De re rustica di Columella e alle Georgiche di Virgilio. Altre sue opere sono: Miseto, Iside. Ercole benacense, Carme per Bovio (quest’ultimo dato per disperso e ritrovato da Sessa, quasi illeggibile, copiato a mano dall’originale nel Settecento). Anche se dedicate a illustri personaggi, ogni opera del Voltolina si rivolge a una donna, Isabella Socia, probabilmente abitante vicino a un suo poderetto alla Tavina. E’ l’amore della sua vita, anche lei sempre lo rifiuta.
Quando l’innamorato muore, a soli 44 anni, il Gratarolo lo ricorda: “Questo il Voltolina scrisse quando era in cervello”. Per altri egli impazzì a causa del folle amore per Isabella. Della quale sappiamo solo ciò che ne scrive l’innamorato: Mio amore, unico testimone della bellezza e del pudore (…) La cosa più preziosa che il nostro golfo ha creato (…) senza di te niente è per me dolce.
Ma si può amare invano la stessa donna per tutta la vita senza scivolare nell’insano?
Il rifiuto di Isabella la rende a volte generata dalle leonesse libiche, più superba del pavone e quando gli è chiaro che lei ama un cupo e perverso giovane, esplode: capirà quanto sia orribile delitto non amare un amico che ama. Un fremere che ricorda Catullo e il frustrante amore per Lesbia.
Fra le altre opere va ricordato l’Ercole benacense. L’eroe, ammazzato il centauro Caco, passa per il Benaco e si ferma a riposare. Voltolina immagina il Garda come una Grecia: Manerba è Minerva, la ninfa Clisi si suicida per salvare il suo onore, la Valtenesi è la Valle Ateniese, i monti gardesani sono il Peloponneso.
Nemmeno sul lago Ercole è tranquillo: mette in fuga i satiri, uccide un gigante e l’Idra (il lago d’Idro), distrugge la pirateria di Campione, s’innamora follemente della ninfa Madorina, una bionda che raccoglie fiori sulle sponde del lago, e lei lo ama, abbandonato il pudore. Tutto si legge come un costante, commovente appello a Isabella.
Ben diverso da lui, Gratarolo ha scritto tre tragedie in poesia, ora tradotte e trascritte da Sessa: Altea, Astianatte, Polissena. L’argomento è omerico e classico.
Forse mai rappresentate, influenzate da Ovidio e Seneca, adottano la regola classica: la contemporaneità di luogo, tempo e azione, convergenti nel solito schema: tracotanza, nemesi, catarsi.
Il più suggestivo è l’Astianatte.
Troia si crede padrona del mondo (tracotanza), gli Achei la distruggono (nemesi), la catarsi avviene col fanciullo Astianatte che si lancia da una rupe anticipando i nemici che vogliono ucciderlo. Il Coro vede e commenta addolorato.
L’opera attinge all’antico, ma il gusto, l’introspezione psicologica sono moderne.
Andromaca, ben consigliata, nasconde il figlio nella tomba del padre, ma da essa non si allontana, come le era stato ripetutamente detto, così viene smascherata dall’astuzia di Ulisse. Perché non si è allontanata? Perché l’amo troppo, dice lei. In realtà l’ama troppo poco, l’amore non è mai “troppo”. Lei stessa poi lo capisce in una drammatica contraddizione.
Una dea carica d’odio governa la vicenda, Giunone che vuole distruggere la stirpe troiana. Una Giunone implacabile, capace di una promessa che non può mantenere: il ritorno tranquillo degli Achei per mare se uccideranno Astianatte. Ma il mare è di Nettuno, molti vi annegano e Ulisse ne ha per dieci anni.