“La corrente”, capitolo 5
febbraio 28, 2015 in Racconti e poesie da Stefano Bottarelli
Quei giorni non ancora estivi ma già caldi, teneri e giocondi, misteriosamente rosati nelle serate dolci se il cielo tiene il sereno, si proiettavano nelle iridi di Gigliola la misteriosa, Gigliola la candida e insieme disposta a rivedere il proprio passato, a reimmergersi in giornate così lontane da risultare nuove, così piacevolmente vissute decine di anni prima da essere rivisitate con la voglia dei sensi.
Gigliola era cambiata ma ritornava ai tempi illusi di una giovinezza marina, gioviale, elettrica insieme per ricordi di passioni. Altri tempi, altri lidi sentimentali, ma la spiaggia era la stessa, il mare era lo stesso, terribile se irato e tanto mansueto in quella domenica che ritornava ad essere luminosa dopo qualche giorno di nuvole in cielo.
La litoranea che sfocia al calore salato del Mar Ligure era di un tiepido asfalto rinnovato e odoroso di sabbia, da quel semaforo che da una parte porta al fiume Magra, dall’altra parte alla Versilia più mondana e ciarliera. Lì dove un fiume divide la regione in Liguria, chiusa e terrazzata e in Toscana, dolcemente declive, aperta alle Apuane rocciose e bianche di una polvere che non è neve ma marmo, lì gli occhi di Gigliola si apersero al sole morbido di maggio, agli aquiloni ondeggianti e colorati, agli stabilimenti ancora chiusi della lontana Marina di Carrara.
Vicino alcuni cavalli si beavano dell’erba da brucare in un recinto vicino a Luni, ove resti etruschi dormivano all’aperto quella domenica selciata in certe passeggiate di turisti appena giunti a fotografare la storia, la storia dell’Italia preitalica, pietrificata nel tempo che tutto sopporta, tutto incalcina e tormenta ; gli etruschi ancora lì vivevano, indoeuropei o no, fantasmi navigatori delle chiatte che dal porto sul Magra già duemilaottocento anni prima di oggi varcavano le tempeste e a piccolo cabotaggio commerciavano a vela.
Non a questo Gigliola pensò quella mattina in compagnia di Marta e Rodolfo; ma sentiva che non erano più gli anni delle corse a perdifiato tra i canneti a ristorarla, c’era una sensazione di calma sensuale nei suoi pensieri ora che viaggiava in macchina verso il mare. I dubbi e la perdizione davanti ai treni le sfuggivano nel loro significato, ma le tornava alla mente come il portato di una dimensione finita, la cui crisi era iniziata alla spiaggia di Punta Corvo.
Rodolfo ne occhieggiava le fattezze longilinee, Marta scrutava i passanti che si godevano la festa e dimenticavano le ore feriali, mentre la macchina arrivava a Marinella e fu parcheggiata in un polveroso piazzale. Entrarono alle dune sabbiose non ancora curate per la stagione estiva, ancora disordinate come una tavola sparecchiata che li induce a ritornare ogni estate a quel menù.
Rodolfo fu il primo a trovare un posto adatto per depositare le varie cianfrusaglie minute e grandi della sua venuta, seguì Marta a riporle più ordinatamente come dovesse apparecchiare una casa. Gigliola invece era indifferente alla locazione, tutta assorbita dal ridondante marino, dal rumoroso ansito dell’infinito marittimo. Una volta seduti uno dinanzi all’altro non seppero che cosa dirsi e rimasero in silenzio ad ascoltare il fondo mesto e continuo da basso tuba un po’ stonato della risacca. Gigliola volle vedere se Rodolfo si era accorto di lei non perché fosse gelosa di Marta, perché piuttosto amava Rodolfo come un suo pensiero e si sa che i pensieri esigono una comprensione del soggetto. Iniziò un discorso sull’anima e sul mare, anzi, sull’anima del mare, personificò quel mostro eterno in una magia di attributi e locuzioni, tanto che Marta e Rodolfo rimasero interdetti, allibiti, intravidero nelle parole di Gigliola un fatto d’arte, la ascoltarono zitti.
“Il mare è lo stesso dell’oceano, è lo stesso nel tempo” diceva. “Il mare della Bretagna è ancora quello del mago Merlino, consigliere di re Artù. Il mare che ci sta davanti è ancora quello degli etruschi, lo ha solcato forse venendo dalla Lidia un popolo misterioso che commerciò con l’Europa, imparò a tumulare i defunti, attraversò gli Appennini e giunse nella pianura padana, costruì città e lavorò il ferro e il rame dalle colline metallifere, impose re a Roma. Ora noi ne sappiamo e ne parliamo, perché siamo i discendenti degli etruschi, gli abitanti della Tuscia, la Toscana”. Così, a questo ritmo Gigliola continuò a sentenziare nozioni e sapori storici su quei posti, mentre i suoi ospiti incantati la miravano dottorare e si chiedevano dove volesse parare.
“Vi ho portato qui in questa domenica” continuò “perché l’umanità è un insieme di ricordi; come la storia è il ricordo di quei ricordi, noi tre siamo il ricordo della nostra storia. Avervi vicino dinanzi all’eterno mare è già un ricordo, anche se vent’anni fa, quando venni qui con Rodolfo, tu, Marta, non c’eri ; ma è come se ci fossi stata perché qui tutto è uguale se non tu, che compari a noi nella tua figura immortale, dato che si rigenera ogni giornata, quindi cambia nella sua eternità”.