“La corrente”, capitolo 2
febbraio 5, 2015 in Racconti e poesie da Stefano Bottarelli
Quella casa raggiunta in corso Garibaldi per Gigliola era un tempio. Il suo ultimo riferimento ad un possibile rifugio là andava, ogni volta. Gigliola si sentiva bene in quella dimora non tanto antica, spaziosa anche se non grande, rivolta con un fianco alla brezza di mare che qualche sera arrivava lì dalle marine distanti chilometri. Era vicino al Duomo, quello della freccia ancora conficcata come una spina nel palmo di una mano chiara come il marmo lucido che la ricopriva. Quella piazzetta estesa a poco della strada principale che taglia quei centri minori come Sarzana era l’agorà delle burle giovanili della nostra fanciulla, ora donna, nelle serate estive meno torride e arieggiate, con gli amici di sempre persi per la via da quando Gigliola viveva la propria esistenza musicale a Firenze.
Attraversò con l’auto la piazzetta ciarliera di un’acqua che gorgogliava dalla fontana mai sazia, si avviò presso il proprio rifugio dopo aver lasciato l’automobile lì vicino. Si era incamminata con una ondulante fretta giovanile, tipica di chi ha risolto un proprio caso e se lo vuole lasciare alle spalle. Le scale di casa erano ripide dopo un portone dal lucido battente, l’atrio modesto nell’arredamento, ma solamente quella casa aveva un profumo indecifrabile e insieme nobile vicino alle narici della nostra ragazza, come una lieve brezza amarognola con un che di stantio e di riconoscente insieme verso colei che lo fiuta.
Gigliola aprì la bocca dell’acqua calda, in bagno, la vasca si inondò di fumo caldo. Si spogliò, attese con una sigaretta fra le labbra il mescolarsi dell’acqua fredda con quella bollente: si immerse lentamente e assaporando un sentimento di inondazione delle membra in quella giornata primaverile e orgogliosa. Sentiva il bagnato permeare ogni suo pensiero, quasi si appisolò nel tiepidume fumigante, lasciò sciogliere i muscoli come vele intrepide, ascoltò i canarini nella gabbia gorgheggiare che tanto assomigliavano agli uccelli abbandonati sulla spiaggia nel pomeriggio. Non sentì il telefono, con gli occhi chiusi che luccicavano sotto le palpebre un po’ cerchiate. Si abbandonò alla sua età ancora giovane e si addormentò nella vasca da bagno.
Fu come un immoto tramonto il risveglio di Gigliola nella vasca: i rumori si fecero tali, i profumi pure, riapparvero i colori, le sensazioni di una pelle crepolata dall’acqua che si era raffreddata; un piccolo brivido ma non di freddo le percorse tutto il corpo: era viva e libera di un senso di pace con sé e col mondo, che fosse la provincia vicino o la città grande come Firenze, che fosse il proprio peso che tendeva al galleggiamento ma non ci riusciva, o che fosse un vuoto di cui la stanza assumeva tutta la responsabilità, una stanza da bagno con i vetri appannati che la accoglieva ancora integra, bisognosa di voci e di novità.
Da quella posizione di riposo si decise a levarsi, rifugiando in un secco asciugamano grande e rosa prima preparato. Si riaccese una sigaretta fra le dita rigate di umidità e stette ancora a pensare, come ritemprata dalla quiete della stanza vaporosa e ferma.
Uscita si distese sul letto e si addormentò di colpo. Fu come un lampo quel sogno che la colse verso mattina. Nel sogno lei accordava un’arpa la quale improvvisamente cominciava a parlarle d’amore, e le corde divenivano biondi capelli di trine, di un filo infinito, magico, e si univano ai suoi capelli; l’arpa diveniva viva, parlava di tutto con un’arpista che ancora la suonava, ma non faceva altro che annodarsi i fili biondi fra le dita; ugualmente ne usciva un suono fatato, così soave, angelico e sublime che tutto il resto svaniva fino allo svanire del sogno, in un ripetersi infinito dell’ultima nota, continua, impalpabile, incantata; Gigliola sentiva che stava sognando.
Il sogno finiva e come serena e felice Gigliola si svegliava, ritornava alla coscienza del giorno – era mattina – e ritornava in sintonia con quel profumo della casa, antico profumo delle storie sue, antico profumo del tempo domestico. Si levò dal giaciglio e mise a bollire il caffè: erano le sette e venti, neanche tanto tardi: Gigliola aperse le finestre sulla piazza vicino (il duomo si intravedeva desto e di un colore di carezze lontane). Si vestì e andò a vedere il giorno.