Se Don Abbondio incontra il Decameron

gennaio 3, 2015 in Grammatica studentesca della fantasia, Racconti e poesie da Matteo Corvaglia

TIPOLOGIA NARRATIVA
Dieci giovani della borghesia fiorentina decidono di scampare al pericolo della peste rifugiandosi in una villa arroccata sulle colline fiesolane. Quando infilano la chiave nel cancello, una brutta sorpresa: la casa è già occupata da Don Abbondio, Perpetua, Agnese e da altri lombardi in fuga dal flagello.

8987719Arroccato con posa signorile sulla sua poltrona, Don Abbondio continuava a sbuffare e a guardare spazientito l’orologio. Nella mano sinistra, pigramente adagiata sul bracciolo, stringeva il suo rosario di madreperla; sulle ginocchia aveva una copia del “Corriere della Sera”, aperta da mezz’ora sulla quarta pagina. Tra l’articolo sul recente scandalo del contrabbando di vaccini e la foto del solito politicante ventre-pieno e testa-vuota che chiedeva a gran voce la chiusura delle frontiere per tenere fuori le “masse infette”, quel giorno il quotidiano riportava una cartina che evidenziava le aree di diffusione della peste.

Pur non essendo un tipo ansioso, Don Abbondio sapeva che l’epidemia stava lentamente varcando il confine naturale del Po e non riusciva a prendere sonno come avrebbe voluto. A poca distanza, Agnese e la fedele Perpetua si dilettavano in silenzio nella loro eterna partita di briscola, sventolando di quando in quando le mani per scacciare una mosca o una zanzara. Non  si parlava molto in quei giorni. Dopo la morte della povera Lucia, Don Abbondio si era ricordato di una vecchia tenuta sui colli di Fiesole, che anni prima il ricco Don Rodrigo gli aveva donato in cambio di un favore. Don Abbondio non vi aveva mai trascorso un giorno di vacanza, preferendo non abbandonare il suo “gregge”. Ma, di fronte alle recenti necessità, si era convinto che la villa sarebbe stata il miglior rifugio per sé e per la propria combriccola.

Mentre il sacerdote si inumidiva di saliva la punta delle dita per girare la pagina, il campanello suonò. Il prete e le sue alacri devote si voltarono di scatto verso la porta, poi si fissarono tra loro con aria attonita: era passato tanto tempo dall’ultima volta  che avevano udito squillare un campanello e l’evento destò in loro la stessa sorpresa di una chiamata della polizia nel cuore della notte. Senza che nessuno l’avesse deciso, fu Perpetua ad alzarsi. Avvicinandosi all’ingresso con i suoi passi da uccellino, le parve di sentire al di là del  legno della porta una voce baritonale maschile domandare con malcelato entusiasmo: «Avete visto dove vi ho portato? Non è caruccia la casa della mia infanzia?», aspirando la “c” in quella maniera dei toscani che Perpetua  trovava un po’ fastidiosa. «Bellina, proprio bellina», rispose un coro di voci femminili, che a Perpetua ricordava l’ottuso chiocciare delle galline di Agnese.

5382172Esitante, la donna aprì la porta e si trovò davanti un’allegra comitiva di giovani intorno ai venticinque anni, sia uomini che donne, forse in tutto una decina. Uno di loro, che con fare arrogante esibiva i peli del petto dalla scollatura della maglietta e stringeva due donne, le si rivolse con quella stessa voce autoritaria che aveva udito nell’arrivare: «Ma guarda che sorpresa, Una vecchietta! Sono il figlio di Don Rodrigo, mio padre è in casa?». La donna lo invitò ad entrare, chiedendosi se davvero desse l’impressione di essere così avanti negli anni e cercando di mascherare il proprio disagio. Come si chiarì di lì a poco, il giovane, che si faceva chiamare Filostrato e si dichiarava figlio di Don Rodrigo, non era al corrente che il padre avesse ceduto una delle sue proprietà, e si disse stupito che il beneficiario fosse un pretino di provincia. Ridendo per la sua sfrontatezza, continuò affermando che lui e i suoi amici avevano intenzione di rimanere nella villa almeno fino a quando l’epidemia si fosse estinta, e che ciononostante Don Abbondio e le sue “amiche” (lo disse ammiccando al prete con aria complice) avrebbero potuto restare dietro pagamento di un affitto. Senza il coraggio di obiettare, Don Abbondio infilò una mano in tasca e ne trasse i quattro soldi per l’affitto arretrato.

 Dopo essersi bevuti i quattro soldi nel bar di Fiesole, i dieci giovani rincasarono ubriachi e fecero festa tutta sera, come se sulla pagina del “Corriere” di quel giorno fosse stata comunicata, al posto dello scandalo dei vaccini, la vittoria della nazionale ai mondiali. Nell’euforia dell’alcool due di loro iniziarono addirittura una partita di baseball usando il bastone di Agnese come mazza. Sedute in cerchio, le ragazze si raccontavano, a turno, storie licenziose, tali che Agnese non poté sopportare di ascoltarle. Dopo aver fatto irruzione nella camera di Don Abbondio, Filostrato ne uscì con una tonaca e un cordone legato attorno alla vita, gesticolando con fare istrionesco e cantando canzoncine blasfeme.

Mentre tutto questo avveniva, il prete, Agnese e Perpetua sedevano in silenzio intorno al tavolo, senza sapere cosa dire e cosa fare e scambiandosi ogni tanto occhiate di sconforto. Quando alle tre del mattino fu chiaro che la festa si sarebbe protratta non solo fino all’alba, ma anche fino al tramonto seguente, e ancora fino all’alba del giorno dopo e per chissà quanto, Perpetua si alzò dalla sedia sbattendo i pugni sul tavolo con fare risoluto. In capo a due ore le valigie erano pronte. 

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