Contro il monoteismo
aprile 8, 2015 in Approfondimenti da Mario Baldoli
In principio era il Mito, un canto che attivava e attiva processi profondi e forze elementari della vita psichica. Il primo rapsodo (cucitore di canti) che incontriamo è Demodoco che nell’Odissea commuove col suo canto Ulisse spingendolo a raccontare le sue avventure.
Il Mito anticipa il Logos che è la “parola” che dà vita a un discorso razionale e, più tardi, alla filosofia.
Il Mito scaturisce da una memoria collettiva comune, non è un pensiero binario, “con me o contro di me”, come quello monoteista, ma un pensiero analogico che convive con ogni religione.
Nella psicologia junghiana il Mito è la fondazione originaria da cui tutto si dipana.
Scrivo del Mito sotto la suggestione di un libro di Maurizio Bettini, Elogio del politeismo, Il Mulino.
Sono di parte: ho sempre sentito i monoteismi (le religioni nate dal deserto) come un gabbia con dentro un canarino spelacchiato, una giaculatoria di comandamenti e divieti. Nel patto con gli Ebrei, Dio è persino “geloso”, è l’unico vero, autentico, indiscutibile.
Alle elementari leggevo Omero che mi riempiva di fantasia, mentre la storia dei Farisei e del buon samaritano erano solo noiose. La nascita biblica di Eva è tanto disgustosa, quanto è ricca di fantasia, ironia e bellezza quella della prima donna del mito: Pandora (Tutti i doni).
Ho scelto, nelle immagini qui sotto, il mondo minoico per raffigurare il politeismo.
Creta è l’origine della civiltà europea. Lì viveva un popolo che, dalla sua arte che risale all’età del bronzo tra 1700 e il 1450, possiamo considerare “felice”. Un popolo che amava dèi antecedenti a quelli dell’Olimpo, ma era ospitale tanto che in una sua grotta fu nascosto il neonato Zeus. I suoi dei, il Toro, la Dea dei serpenti fanno parte della natura, non della mente astratta.
I Cretesi amavano la corsa e la danza, la prova atletica (iniziatica?) di saltare sul dorso del toro, le loro donne si muovevano libere a seno scoperto, non amavano combattere e furono travolti dai Micenei e dai Dori, lasciando però una sfrenata bellezza.
Anche anticamente si combatteva, ma ben più gravi, a volte senza senso, furono e sono le guerre cementate dall’intolleranza religiosa che si richiama alla volontà divina.
Ha scritto W. Benjamin: La violenza mitica crea la legge e fonda lo Stato; quella “divina” sospende la legge e supera lo Stato (in Assmann, Non avrai altro Dio, Il Mulino).
Evidenti sono i danni del Cristianesimo e dell’Islam: invece di interscambi fra loro e con le altre religioni, cercano di cooptarle o distruggerle. Devono “convertire”.
I monoteismi hanno rotto la traducibilità l’una nell’altra delle altre religioni sostenendo di nascere da una rivelazione divina, quindi di essere le uniche portatrici di verità.
Ma basta pensare a Gerusalemme, capitale delle tre religioni monoteistiche e sede di un’interminabile guerra, o alle conversioni forzate, alle crociate, alle torture ed eliminazione delle streghe, all’intolleranza (il peggior nemico dei monoteismi resta l’Illuminismo), alla Shoa, al Califfato per avere orrore di un monoteismo che aggiunge alla guerra di potere, il fanatismo della religione.
Non solo: il monoteismo ha generato guerre anche tra i credenti nello stesso Dio.
Mentre i monoteismi avviano dialoghi stentati, il politeismo manifesta curiosità e voglia di conoscere le altre religioni. Le rispettava al punto che, quando un esercito stava per entrare in una città assediata, compiva sacrifici affinchè gli dei della città uscissero, per non peccare contro di loro. Per il politeismo la religione non può esser causa di violenza (Augé, Génie du paganisme, Gallimard).
La stessa parola politeismo, come quelle di idolatria e paganesimo, sono state inventate dai cristiani per denigrare chi credeva negli dei, e gli antichi non le avrebbero comprese.
Da allora gli dei sono diventati malattia, (Jung, Opere, vol.13, Boringhieri).
Contro il monoteismo scrive anche Freud: Con la fede in un unico dio nacque inevitabilmente l’intolleranza religiosa, sconosciuta nell’antichità prima di allora e ancora molto tempo dopo. (L’uomo Mosè e la religione del monoteismo, Boringhieri).
Per Freud il mito ha le sue ragioni nell’inconscio personale dell’uomo. Per Jung origina in una struttura dell’inconscio collettivo. In ogni caso, è un racconto a cui dobbiamo dare una concretezza storica. (Kerény, Gli dei e gli eroi della Grecia, Boringhieri).
L’antica massa di materiale del mito fluisce nella storia in un flusso di bellezza, immagini, intrecci, colori che non vanno interpretati, che parlano da sé (Jung e Kerény, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, Boringhieri).
Ora la religione non è più l’oppio, ma la dinamite dei popoli, crea nemici immaginari e mobilita le masse per la guerra. Oggi, finita la guerra fredda, gli Stati Uniti hanno ripreso l’antico scontro di civiltà con l’Islam (Assmann, cit.) e l’Islam ha risposto con una radicalizzazione e un’aggressività prevedibili.
L’arroganza della ragione e la tracotanza del conoscere ci hanno condotto alla miseria del presente. Da quando gli Ateniesi scelsero la protezione di Pallade, la razionalità, imprigionata nella sua corazza, difesa dal suo scudo con al centro il volto di Medusa, è nato il nostro mondo totalitario, enorme: consumismo, ipermercati, mercificazione capitalista dei valori, nichilismo della scienza materialista, medicalizzazione, televisione, cellulare, cyberspazio, ingiustizia sociale e incuria ambientale distruggono la nostra vita e la nostra immaginazione.
L’enormità in cui viviamo richiede sempre maggiori dosi di disciplina. Siamo nella caverna di Platone, inebetiti (Hillman, Le storie che curano, Adelphi).
Abbiamo respinto Venere Afrodite, l’amica del sorriso, l’evocazione del desiderio, del piacere, della bellezza: I capelli lunghi sono impediti alla catena di montaggio, si impiglierebbero negli ingranaggi. La signora del Botticelli dovrà raccoglierli sotto un berretto bianco, questione di igiene. La pelle va protetta per proteggerla dal cancro. I piedi vanno chiusi nelle scarpe, le unghie tagliate, i peli strappati. L’odore della carne calda dopo il bagno va coperto da deodoranti fetenti.
Ma gli dei sono immortali, sono qui, sono nascosti (Hillman, La vana fuga dagli dei, Adelphi). Sono una forma speciale di pensiero che abbiamo smarrito (Guidorizzi, Il mito greco. Mondadori).
Per molti non recuperabile. Gli dei ci sono ancora, ma loro composita tribù sussiste solo nelle sue storie e nei suoi idoli dispersi. La via del culto è sbarrata (Calasso, La letteratura e gli dei, Adelphi).
I miti – scrive Leopardi nello Zibaldone – sono relitti di un mondo in cui la ragione non aveva ancora dispiegato i suoi effetti di potenza che rende e piccoli e vili e da nulla tutti gli oggetti sopra i quali ella si esercita, annulla il grande, il bello, e per così dire la stessa esistenza, è vera madre e cagione del nulla, e le cose tanto più impiccoliscono quanto ella cresce. Ma Leopardi con la sua lucidità sapeva bene che con la letteratura non abbiamo ereditato la religione greca e latina. L’imitazione neoclassica è sterile.
Tuttavia, anche se diamo alla mitologia greca una concretezza storica, sappiamo che gli dei resteranno a lungo nascosti, perché il monoteismo è una malattia che solo l’ateismo riesce a sbiadire.
Ma nella nostra società l’adozione di alcuni quadri mentali propri del politeismo ridurrebbe la conflittualità, in particolare tra gli stessi monoteismi. La ricchezza degli dei porterebbe un fantastico arricchimento artistico e psicologico, la capacità di immaginare potrà liberarci da molte guerre, scrive Bettini.
“Non abbiamo immaginato che”…, dicono i libri di memorie dei ministri americani, a partire da McNamara, kennediano ministro della difesa. Leggiamo i ministri di Clinton e Bush: Non abbiamo immaginato che le guerre del Golfo (coll’intervento Usa a favore di Saddam contro l’Iran che stava vincendo, con la guerra contro Saddam per il Kuwait, di nuovo contro un Saddam ormai piegato) facessero nascere Al Qaeda e producessero la distruzione delle due torri, poi altre guerre contro Afghanistan e Iraq. Tanto meno immaginarono il Califfato benché controllassero e controllino le comunicazioni di tutta quell’area.
Eppure gli dei ci avevano dato l’immaginazione. Ma la soffocata angoscia in cui viviamo mostra la nostra paura verso la fantasia e l’irrazionale. (Hillman, Figure del mito, Adelphi)
Scopriamo così che le porte della felicità non sono irrimediabilmente chiuse, anche se resta oscuro tutto il percorso da compiere. Sappiamo che nulla garantisce la felicità, che il dolore è parte irrimediabile della vita umana.
Inoltre, resta senza risposta la domanda: a quale periodo antico si riferisce ciò a cui vogliamo tornare? Non si sa quando sia stata scritta l’Iliade, anche se Troia fu distrutta nel XII secolo. Lì gli dei vivevano con gli uomini. Ma già non ci vivono più nell’Odissea, quando gli interventi di Pallade, Poseidone, Ermes sono di maniera o sotto mentite spoglie.
Ancora: quale idea del mondo antico può prendere vita più facilmente nella nostra società?
Io credo: l’idea di tempo. A dispetto di Proust, credo che il tempo sia un percorso: la vita e la morte sono il vero tempo. Per gli antichi il tempo aveva un moto circolare, come le stagioni, come il cadere delle foglie, dice l’Iliade. Col cristianesimo il moto diventa lineare. Il primo è il tempo della natura, il secondo è l’idea arrogante di un infinito progresso.
In basso, lo splendore dell’artigianato minoico