Connessione è donna: ma si può andare oltre
giugno 12, 2021 in Approfondimenti, Recensioni da Laura Giuffredi
La storia comincia da lontano, per esempio da Ada King, contessa di Lovelace, che, educata dall’intelligente madre Annabella, e non dal padre Lord Byron (che non la volle neppure conoscere), crebbe a pane e matematica, intuendo, nel XIX secolo, le potenzialità della prima “macchina analitica” ideata da Charles Babbage, e spingendola a esprimersi attraverso modelli algebrici, e quindi simboli, in cui tutto poteva essere elaborato. Fu ascoltata, e anche ammirata, ma forse solo perché ricca e di buona famiglia.
Sulla sua bara (morì di cancro all’utero a soli 36 anni) il motto “Labor ipse voluptas”, “La fatica stessa è la ricompensa”: e la fatica sarebbe a lungo rimasta l’unica ricompensa per quelle dopo di lei. Per le cosiddette “Kilo-girls”, le “calcolatrici umane” che, ad esempio ad Harvard, catalogarono decine di migliaia di stelle; o che al National Advisory Comittee for Aeronautics (predecessore della NASA), calcolarono le traiettorie dei primi voli interstellari. Da mere esecutrici di calcoli, molte di loro divennero “programmatrici” delle funzioni delle nuove macchine, sempre più evolute. Una storia avvincente che ci racconta CLAIRE L. EVANS in Connessione. Storia femminile di Internet, Luiss 2020.
In quel mondo si fa strada la “prodigiosa” Grace Hopper: poliglotta, eclettica nella sua cultura enciclopedica, passò dall’insegnamento all’arruolamento in Marina (dopo lo shock di Pearl Harbour), dove riuscì a domare quella bestia aggressiva che era Mark I, il primo computer al mondo che risolveva problemi balistici durante la guerra. Certo, tutto ciò lo fece senza avere il tempo, e neppure lo spirito, per riflettere sulla destinazione e sull’impiego di tutti i suoi calcoli matematici: lo capì all’indomani di Nagasaki ed Hiroshima. Ma su questo tema spinoso ritorneremo più avanti.
Dopo Grace, la strada era spianata: al lavoro presso l’ENIAC (Electronic Numerical Integrator and Computer, la macchina elettronica più veloce durante la guerra e nell’immediato dopoguerra) c’era un affiatato gruppo di donne, tra le quali spiccavano Betty Jean Jennings e Betty Snyder; i loro erano anche in questo caso calcoli balistici.
Colpisce il fatto che, tra addetti ai lavori, le “ragazze” fossero ben note ed apprezzate, ma i comunicati stampa nominassero solo uomini come artefici dei risultati ottenuti.
Il passo successivo, di cui le nostre donne furono il motore, divennero i linguaggi di programmazione utilizzabili anche da non esperti, i semplici “utilizzatori finali”.
Si partì col linguaggio COBOL, che passò dall’esercito all’industria. E così la programmazione divenne, da campo semanticamente indefinito, un ramo dell’ingegneria, e come tale venne insegnata e studiata. E la sua applicazione si allargò ai campi più vari, arrivando anche ai videogame: Colossal Cave Adventure fu uno dei primi videogame da computer e fu inventato da Patricia Crowther.
Invece l’idea di Pam Hardt-English fu quella di mettere in collegamento tra loro i vari esperimenti della controcultura californiana degli anni ’70; e Jude Milhon, haker e scrittrice, ambiva a rendere il suo data base Community Memory accessibile a tutti, e così fu: poeti, musicisti e utenti qualsiasi vi trovavano facilmente informazioni e condividevano esperienze.
La tensione progettuale di Hard-English e delle altre dopo di lei, fu però anche volta ad orientare la ricerca e la pratica informatica verso il bene sociale, meglio se al servizio delle persone più svantaggiate.
Così si realizzò, ad opera di Mary Janowitz e Sherry Reson, il Social Services Referral Directory, che facilitò enormemente il lavoro di assistenti sociali e agenzie di servizi.
Nel frattempo nasceva ARPANET, sistema che collegò computer sparsi per gli USA per condividere risorse e comunicazioni. Elizabeth Feinler, detta Jake, ne divenne il “motore di ricerca”. Spianò la strada all’idea, che oggi appare scontata, ma che negli anni ’70 era avveniristica, che l’informazione sarebbe stata la moneta del secolo.
E così arriviamo a Radia Perlman, progettista di algoritmi di routing, le regole matematiche che determinano il flusso di dati in una rete. E’ colei che, con ironia, scriverà questi versi:
Algorhyme
I think that I shall never see Penso che non vedrò mai
A graph more lovely than a tree. Un diagramma più bello di un albero.
A tree whose crucial property Un albero la cui proprietà cruciale
Is loop-free connectivity. è la connettività senza loop.
a tree that must be sure to span Un albero che deve potersi spandere
So packets can reach every LAN. così i pacchetti possono raggiungere ogni LAN
First, the root must be selected. Prima di tutto bisogna selezionare la radice.
By ID, it is elected. Si sceglie attraverso l’ID.
Least-cost paths are placed. Questi percorsi si posizionano nell’albero.
A mesh is made by folks like me, Una rete è fatta da gente come me,
Then bridges find a spanning tree. Poi i ponti trovano uno spanning tree.
Ci vuole una sensibilità tutta speciale per trovare la poesia negli algoritmi, trasformandoli in “algo-rime”: e ci vuole un cervello come quello di Radia, che negli anni ’80 del secolo scorso trasformò ETHERNET (cioè la prima tecnologia per reti dati cablate che interconnette software e hardware) da qualcosa di limitato e localizzato in qualcosa che potesse reggere reti molto estese, ed è oggi fondamentale per il modo in cui agiscono i computer. Niente di meno. Ma Radia, dimostrando la sua innata discrezione, affermava: “Se faccio bene il mio lavoro, non lo vedi mai”.
Certo, in seguito si aprirono nuove strade e l’email fu un killer per quel sistema anni ’80: grazie all’introduzione dell’instant message, la rete progettata prevalentemente per la ricerca accademica divenne in breve un mezzo di comunicazione in cui la chiacchera di pura solidarietà rimpiazzò la condivisione di risorse e di applicazioni militari.
Aliza Sherman, alla fine degli anni ’80 creò i primi siti web per donne, mentre Stacy Horn col East Coast Hang-Out, ECHO, fornirà account email, chat in tempo reale, messaggistica istantanea: tutte cose che da tempo diamo per scontate. Oggi le donne dominano piattaforme come Pinterest, Facebook, Instagram.
E anche il web come lo conosciamo, con i suoi ipertesti, è apparso sulle scene solo dopo che le sue potenzialità ed i suoi meccanismi erano state esplorate per quasi un decennio da brillanti donne ricercatrici e informatiche. Le quali colsero subito che il web è un ambiente che prevede collaborazione: un campo aperto a persone non necessariamente provenienti dai dipartimenti di informatica, ma da discipline ad ampio raggio come quelle umanistiche. Per loro il prodotto finale non era sempre e solo il software: era l’effetto che il software aveva sulle persone, disposte a lavorare condividendo spazi, idee ed obiettivi. E per questo seppero anche intuire i rischi della “tirannia del ciccabile”, a cominciare dal fatto che è più facile mettere spazzatura nella rete che qualcosa di reale e duraturo, come spiegò Wendy Hall.
Anche in risposta a questo problema operarono donne come Marisa Bowe, username Outer Boro, col suo progetto PLATO (Programmed Logic for Automatic Teaching Operations), che offriva lezioni in tutte le materie. Un’ulteriore felice intuizione.
Ma poi cambiò tutto e il web divenne il mezzo commerciale che conosciamo e che trasforma gli utenti stessi in prodotto, vendendo informazioni demografiche e spazi pubblicitari mirati.
E dunque veniamo all’oggi. Dopo la galoppata che abbiamo descritto, anche esaltante sotto tanti punti di vista, vale forse ormai la pena di ridisegnare prospettive e vocazione della rete e porci domande che tengano conto di un mondo nuovo, che proprio il web ha contribuito velocemente a trasformare.
Effettivamente oggi siamo più o meno tutti alfabetizzati e a nostro agio nel maneggiare le tecnologie che anche le donne citate hanno contribuito a sviluppare e rendere accessibili: pertanto vale la pena di spingersi oltre, entrando nel merito, oltre che entusiasmarci per il metodo.
Vale dunque la pena di raccontare questa bella storia, che Ramesh Srinivasan, studioso statunitense, ha recentemente consegnato a The Mit Press Reader. E il focus si sposta in Messico, partendo da un’amara constatazione: i più credono che le innovazioni tecnologiche nascano per forza nei laboratori della Silicon Valley, nelle aziende cinesi e nelle migliori università del mondo. Ma secondo Peter Bloom, cofondatore delle Telecomunicaciones Indigenas Comunitarias (TIC) e della sua organizzazione internazionale gemella, la Rhizomàtica, “nella Silicon Valley c’è gente che inventa problemi e poi le soluzioni a quei problemi. Ma quelle soluzioni non tengono conto della realtà di nessuno” o, peggio, volutamente la mortificano. Questo è il problema!
Viene in mente il film di Gus Van Sant “Will Hunting. Genio ribelle” quando il protagonista, genio della matematica, ad un colloquio di lavoro per la National Security Agency, qualche problema se lo pone: “Diciamo che lavoro alla N.S.A e mettono sulla mia scrivania un codice che nessuno sa decifrare, e forse ci provo e magari ci riesco e sono fiero di me perché ho fatto bene il mio lavoro, ma forse indica la localizzazione di un esercito ribelle in Nord Africa o in Medio Oriente. Ottenuta la località bombardano il villaggio dove i ribelli si nascondono. 1500 persone con le quali non ho mai avuto problemi restano uccise. Ora i politici dicono: Oh, spedite i marines a sorvegliare la zona, perché non gliene frega niente, non ci sarà un loro figlio a farsi sparare, come non c’erano loro quando era il momento, perché erano in gita nella Guardia Nazionale; ci sarà un tipo di Southhy a prendersi una sventagliata nel sedere, torna in patria per scoprire che la fabbrica in cui lavora è stata esportata nel paese da cui è arrivato e quello che gli ha sbrindellato il culo ora sta al suo posto e lavora per 15 centesimi al giorno…Nel frattempo capisce che la ragione per cui l’avevano mandato a combattere era insediare un governo che ci avrebbe venduto il petrolio a buon prezzo… Allora cos’ho pensato? Mi conservo per qualcosa di meglio…”
A proposito di un uso delle tecnologie per fini condivisibili e umanamente sostenibili, le TIC nello stato di Oaxaca (Messico meridionale) costituiscono un caso emblematico, e viene da dire: un altro mondo è possibile! Esse offrono un servizio a basso costo che appartiene alla comunità degli utenti, basandosi su valori di autodeterminazione radicati nelle culture autoctone del Paese, per tracciare un percorso verso la democratizzazione della tecnologia. Gli utenti sono proprietari e creatori delle loro reti.
Generalmente le reti si creano e gli utenti sono “serviti” nei luoghi dove la gente ha soldi: gli utenti sono infatti generalmente intesi come gruppi di persone pronte ad accettare progetti infrastrutturali a qualunque costo, a prescindere da chi li sviluppa e ci guadagna. Non dev’essere per forza così. Per realizzare la rete cellulare delle TIC, squadre di attivisti, haker e persone delle comunità hanno condotto battaglie legali per avere accesso alla banda radio che oggi è dominata dai grandi operatori. Per costruire il sistema hanno sviluppato infrastrutture decentralizzate, un’innovazione che dipende dalla partecipazione e dalla leadership della comunità: l’idea è che le onde radio debbano essere un bene pubblico, accessibile a tutti, come l’acqua e l’aria. E ce l’hanno fatta.
Nel libro “The wealth of the commons” (La ricchezza dei beni comuni) [Bollier &Helfrich Editors, 2013] Gustavo Esteva spiega che questa filosofia consiste nel togliere l’economia capitalistica dal centro della vita sociale, ritrovare un modo di vita comunitario, incoraggiare il pluralismo profondo e avanzare verso la vera democrazia, che qui si realizza attraverso le “asembleas”, riunioni dove si discute di questioni di interesse comune. Secondo Esteva, in tutti gli aspetti della vita sociale e culturale, la comunalidad è in contrasto con l’approccio atomizzante adottato dalle grandi aziende delle telecomunicazioni, che stipulano contratti individuali, preferibilmente investendo solo dove c’è gente che può pagare bene il servizio.
Quindi, se Evans in questo suo bel saggio ci rivela un mondo sommerso di operatività femminile di altissimo livello, di fatto misconosciuta, è pur vero che meglio sarebbe stato e sarebbe che l’approccio femminile alla tecnologia ed alla scienza in genere, si desse l’obiettivo non solo di farsi largo, sconfiggendo la misoginia ed il maschilismo imperanti, ma di indirizzare il settore verso scelte “umanistiche” di rispetto delle persone, promuovendone il riscatto e ripudiando soluzioni che cristallizzino individualismo, sopruso, sfruttamento, marginalità dei più deboli. Una finalità altissima, che va ben oltre il riconoscimento del talento; essa non può essere, ovviamente, fatta propria solo dalle donne, ma le donne dovrebbero cominciare a preferirla sempre e comunque, senza tentennamenti.
di Laura Giuffredi