Colpevoli e capri espiatori: scorciatoie da evitare
giugno 11, 2022 in Approfondimenti, Recensioni da Laura Giuffredi
L’aveva ben capito Susan Sontag, quando scriveva:
“Chi ha provocato ciò? E’ un atto scusabile? Si sarebbe potuto evitare? Sono queste le domande da porsi, nella consapevolezza che lo sdegno morale, al pari della compassione, non è sufficiente a dettare una linea di condotta” (Davanti al dolore degli altri, 2003).
Le sue parole vengono in mente di fronte ai fatti della guerra in Ucraina, alle immagini del primo soldato di Putin finito a processo a Kiev e condannato all’ergastolo: il ventenne Vadim, che durante una ritirata precipitosa ha sparato ad un civile in bicicletta. Bisognava cominciare da lui con la resa dei conti? a guerra ancora in corso?
In realtà verrebbe da dire che nei processi si deve attingere alle leggi, non alle emozioni per esaminare i fatti e giudicare. Ma il giovane Vadim come capro espiatorio ha fatto comodo, con una condanna esemplare, evitando di riconoscere le responsabilità più generali dell’”organizzazione”, in questo caso i politici che dichiarano la guerra e gli ufficiali che ordinano semplicemente di ammazzare, senza andare tanto per il sottile.
Il tema è la responsabilità: se sia circoscrivibile al singolo attore, per varie circostanze facilmente identificabile, o se sia necessario attribuirla innanzitutto al sistema, all’”organizzazione”, appunto, cui il singolo appartiene.
Nel saggio di Maurizio Catino, Trovare il colpevole. La costruzione del capro espiatorio nelle organizzazioni (Il Mulino, 2022), l’autore opta decisamente per la seconda ipotesi. E ce lo dimostra con una disanima accurata di casi esemplari, certamente molto noti all’opinione pubblica, ed appartenenti ad ambiti diversi
Sia che si tratti del “famigerato” capitano Schettino, della Costa Concordia, miseramente naufragata davanti all’Isola del Giglio nel 2012, sia che si pensi ai torturatori di Abu Ghraib, smascherati nel 2004, sia, ancora, che ci si riferisca agli ingegneri della Volkswagen coinvolti nel “dieselgate”, esploso nel 2015 , la sostanza non cambia.
In tutte queste situazioni, individuare il capro espiatorio, che Canino definisce “organizzativo”, fu facile quanto indispensabile, per salvare la faccia alle organizzazioni (compagnie navali, esercito, industria dell’auto) che invece, certamente, condividevano con i singoli responsabilità e colpe.
“Capri espiatori” certamente non innocenti, ma a cui vennero addossate più responsabilità di quelle che effettivamente ebbero.
Emerge, nei casi citati, attraverso l’ampia ricostruzione dei contesti operativi di riferimento, come i comportamenti dei singoli si inserissero, in realtà in una consuetudine abitualmente orientata, con molta tolleranza, ad avallare prassi rischiose, nel caso della navigazione delle navi da crociera a ridosso delle coste; illegali, nel caso di Abu Ghraib e di Volkswagen.
Evitando l’ipocrisia del “chiamarsi fuori” e prendere le distanze dagli “episodi”, derubricati come frutto della negligenza o malafede di “mele marce” cui l’organizzazione sarebbe del tutto estranea, il tema sarebbe invece imparare dagli errori, non solo e non tanto punire i responsabili in prima linea. Questo per evitare che si possano ripetere tragiche vicende, riuscendo a correggere le criticità, i difetti, spesso incancreniti nell’abitudine, del sistema organizzativo.
Per di più, la paura di conseguenze giudiziarie favorisce l’occultamento di errori ed inibisce la segnalazione degli stessi, passi che sarebbero invece necessari per favorire il miglioramento del sistema: se solo una o poche persone sono responsabili del fatto accaduto, perché cambiare le cose nella sostanza?
A partire da queste considerazioni, l’autore arriva a criticare la cultura organizzativa punitiva, con le sue implicazioni penali e auspica degli “spazi di non punibilità” che implichino una casistica di “errori tollerabili”; ciò al fine di creare nelle organizzazioni un clima di fiducia in cui le persone siano incoraggiate, anche premiate, per aver fornito informazioni essenziali sulla sicurezza, quando ne constatino la compromissione a causa di prassi consolidate e tollerate, pur se discutibili.
In un quadro confuso di responsabilità incrociate, in cui spesso l’ultimo anello della catena non ha né l’abitudine né la possibilità di comunicare anomalie ai più alti livelli, anche per il magistrato che si trovi a giudicare diventa molto difficile trovare il bandolo per attribuire la “colpa”, quando non si tratti di dolo palese. E del resto è dimostrato che con l’intervento della sola indagine giudiziaria il sistema non migliora, ma, anzi, può persino peggiorare.
- Brodskij, premio Nobel per la letteratura, esortava a controllare il dito indice puntato, perché assetato di biasimo. Ciò in quanto, “nel momento in cui si localizza la colpa, si mina la determinazione a cambiare qualcosa” (On Grief and Reason, New York 1995; trad. it. Il profilo di Clio, Milano, Adelphi, 2003, 91-93).
L’invito, dunque, a tutti i livelli di un’organizzazione è:
– far emergere le contraddizioni, ad esempio tra sicurezza e perseguimento degli obiettivi, e gestirle ai fini del miglioramento;
– bloccare le “devianze” prima che diventino illegalità;
– eliminare la “cultura tossica” volta alla facile creazione di capri espiatori, attuando i dovuti cambiamenti dopo ampia, franca discussione sulle pratiche abituali;
– favorire percorsi di apprendimento dai fallimenti (non basati sulla colpa).
E tutto ciò non sembri un freddo decalogo riservato a pochi “addetti ai lavori”: ci viene da dire che andrebbe applicato in ogni contesto, ove si tratti di rapporti umani.
di Laura Giuffredi