Un caso clinico come non te lo spiegano all’Università
aprile 23, 2014 in Salute da Michel Cardito
Spesso, durante la nostra formazione universitaria, ci vengono mostrati casi clinici per rendere più interessante e concreta la lezione. Fondamentalmente possiamo classificare i casi clinici da lezione in due categorie:
-Il primo è quello che si può definire “didattico”; è quel caso clinico da manuale, che rappresenta il quadro più tipico con cui quella patologia si presenta al medico. E’ importante perché fissa nello studente concetti fondamentali su sintomatologia tipica, epidemiologia e gestione della malattia.
-Il secondo tipo è quello che si può definire “rarità”; in questo caso clinico la presentazione clinica è ambigua o addirittura fuorviante, spesso è accompagnato da una lunga serie di ipotesi diagnostiche sbagliate o emergenze mal gestite. Ha due finali possibili: la variante lieto fine in cui alla fine l’eroe risolve il mistero e il paziente guarisce; oppure la variante drammatica nella quale il paziente muore perché nessuno ha avuto l’intuizione giusta per tempo. I casi di questa categoria, oltre a mantenere l’attenzione, spingono lo studente ad approfondire di più e ad analizzare con mente aperta ogni possibilità, in modo che egli, un giorno, possa essere l’eroe della storia e non uno dei tanti incompetenti a cui è sfuggita la giusta diagnosi.
Ultimamente però mi sono imbattuto in un paziente che mi ha fatto molto riflettere sui limiti del sistema universitario nella formazione del giovane medico.
Questo caso non si può ascrivere né alla prima né alla seconda delle categorie precedentemente descritte e probabilmente non è nemmeno così interessante dal punto di vista medico.
Se vi presentassero questo caso a lezione vi direbbero:
(NOTA: In seguito sono riportati dati reali, alcuni dettagli sono stati modificati al fine tutelare l’identità del soggetto coinvolto.)
- Maschio 58aa
- A. Fisiologica: Camionista ancora in attività, ex fumatore (80/die, 120pacchi/anno), circa 1 litro di vino/die.
- A. Patologica Remota: Ipertensione Arteriosa (da una decina d’anni in terapia con nifedipina 40mg/die con scarso controllo),
- A. Patologica Remota: Obesità (BMI 32Kg/m2)
“Si presenta in PS lamentando dispnea, ortopnea e astenia da almeno tre giorni.
- All’ECG riscontro di Fibrillazione Atriale
- l’Ecocardiogramma rivela dilatazione di tutte le camere cardiache, insufficienza ventricolare sinistra (FE35-40%), insufficienza mitralica++/+++ e tricuspidale ++/+++
il paziente viene ricoverato in Cardiologia.
Questo è un paziente obeso con una ipertensione da tempo non controllata . Entra per uno scompenso cardiaco, precedentemente non noto, probabilmente slatentizzato dal sovraimporsi di una fibrillazione atriale. Di fronte a questo paziente è necessario prima di tutto trattare lo scompenso (aggiungndo furosemide, bisoprololo e ramipril alla terapia) in modo da migliore l’emodinamica, ridurre congestione polmonare e ridurre la dilatazione atriale. Nel frattempo sarà necessario scoagulare il paziente per evitare fenomeni embolici a genesi atriale. Successivamente, una volta migliorato il quadro di scompenso, sarà necessario valutare l’eventualità e le modalità di una cardioversione. Infine dimetteremo il paziente con una adeguata terapia antiipertensiava accertandoci che non vi siano altre condizioni che possano aver generato il quadro di scompenso.”
Un caso banale trattato nella maniera migliore e secondo linee guida. (difatti il paziente ora sta bene)
Fortunatamente per me ho potuto seguire questo paziente dal vivo e non a lezione così, oltre a seguirne la storia clinica, ho potuto vivere per intero il suo ricovero e, ripensando a tutto quello che mi è stato insegnato in questi anni, mi sono interrogato su alcune deformazioni del nostro percorso di studi, in particolare sull’eccessivo ruolo informativo a scapito del ruolo formativo e sulla inadeguata preparazione al ruolo del medico.
Primo: La didattica ospedale-centrica
Quando ci raccontano i casi clinici a lezione sembra che il paziente “nasca” nel momento dell’ingresso in ospedale e che “muoia” alla sua dimissione. Tenuto conto che in Italia ogni anno si iscrivono a Medicina circa 10.000 studenti mentre le borse di studio disponibili per un percorso di specializzazione sono circa 4500 (probabilmente meno per i prossimi anni) si può affermare che più della metà degli studenti che si trovano in un’aula siano destinati a svolgere una professione extraospedaliera. Inoltre successivamente all’abilitazione molti di noi effettuano sostituzioni, guardie mediche o sono inseriti nel contesto della medicina territoriale per periodi che possono durare anche anni.
Che senso ha allora questa didattica così “ospedalecentrica”? Perché nessuno ci spiega come aumentare l’aderenza dei pazienti alla terapia o come va gestito un paziente come quello appena descritto prima e dopo l’evento acuto che lo ha costretto al ricovero ospedaliero? Questi domande vanno poste soprattutto alla luce delle notevoli deficienze del sistema territoriale (vedi in seguito).
Secondo: L’inadeguatezza del servizio territoriale
Ho visto troppi pazienti “rimessi in sesto” in qualche reparto di medicina provenire da un sistema territoriale inadeguato, o essere poi ri-affidati allo stesso sistema, che ciclicamente rientravano in ospedale in una cascata di ricoveri fotocopia. Non ha senso investire in grandi strutture di eccellenza se poi non c’è una rete territoriale che fornisca prevenzione e sostegno ai pazienti.
Ad esempio, il nostro paziente è stato seguito per molti anni per la sua ipertensione ma la terapia attuale appare fortemente inadeguata. Già dal colloquio col paziente appare chiaro che egli non è stato assolutamente educato alla gestione della sua patologia e nemmeno ad effettuare un corretto controllo pressorio. Più volte il paziente ha fatto intendere che misurandosi la pressione considerasse normali valori pressori intorno ai 140/100 mmHg. A questo si aggiunge che la monoterapia con ca-antagonista non è proprio la più indicata per un paziente con un quadro cardiaco così complesso quindi, delle due l’una: o il curante non era a conoscenza della condizione del suo assistito o il medico generale non era competente riguardo la terapia.
Sia nel primo caso che nel secondo siamo di fronte a due gravi situazioni che hanno reso irreversibile una condizione clinica che invece si sarebbe potuta controllare per molti anni.
Ancora una volta il problema è: che risorse hanno i medici territoriali?
Da una parte l’Università non li prepara alla gestione di un paziente territoriale: non insegna nulla sulla corretta educazione del paziente, non insegna quali sono le modalità con cui si garantisce la maggior aderenza a indicazioni e terapie, non insegna a gestire il disagio psicologico o sociale del paziente.
Dall’altra parte la gestione politico-economica della sanità ricalca (ed è origine) del modello ospedale-centrico e malattia-centrico. La concentrazione di specialisti e strumenti diagnostici tutti in uno stesso luogo garantisce la massima “efficienza” con il minimo utilizzo delle risorse.
Questa gestione efficientista è in realtà fallimentare sia da un punto di vista teorico che pratico:
Innanzitutto perché scopo del SSN è tutelare e promuovere la salute mentre il compito degli ospedali è la cura della malattia. Quindi la cura è logicamente subordinata alla tutela. Allora l’accesso massivo in ospedale dovrebbe essere addirittura considerato l’indice di fallimento del sistema perché dimostra che la prevenzione non è stata efficace.Bisogna aspirare ad un Sistema Sanitario in cui la gente sia meno malata, non ad un sistema che curi meglio le patologie.
A questo si aggiunge che l’invecchiamento progressivo della popolazione sta portando al collasso economico il sistema così come è strutturato, tanto che qualcuno ritiene che esso non sarà più sostenibile e propone perfino l’ ineluttabile passaggio ad un modello privatistico(!). In realtà la prevenzione, una adeguata rete di servizi territoriali e una attenzione all’assistenza domiciliare garantirebbe una riduzione dell’accesso agli ospedali, una riduzione di morbilità e mortalità, una riduzione delle spese nel suo complesso e soprattutto un aumento significativo della qualità della vita.
Per ottenere un servizio di questo tipo sono necessari investimenti a breve termine che si ripagherebbero ampiamente nel lungo periodo. Purtroppo per noi nessuno di coloro che avrebbero attualmente potere di farlo ne ha la volontà politica o l’interesse .
Terzo: I limiti del medico nella tutela della Salute
Approfondendo l’anamnesi e analizzando la storia del paziente ad una luce non strettamente clinica possiamo in realtà acquisire un gran numero di informazioni che sarebbero veramente importanti per chiunque volesse intraprendere la carriera medica. Durante i primi anni di Medicina infatti ci viene continuamente ripetuto che: “l’anamnesi è il momento clinico fondamentale”; “la salute è una condizione complessa definita dalla dimensione fisica, sociale e psicologica” e “bisogna applicare una medicina patient-centred” … purtroppo durante gli anni successivi, quelli fondamentali per la formazione clinica del medico, siamo costantemente bombardati da cattivi esempi e da un metodo di insegnamento totalmente disease-centred, che spersonalizza il paziente e dimentica l’anamnesi.
Ho raccolto io l’anamnesi di questo paziente e credo che sarebbe stato importante prendere in considerazione i seguenti aspetti (come ci insegnano nella teoria) e non lasciare che siano solo scarabocchi su di un foglio a crocette(come avviene in realtà).
1- Innanzitutto: la professione. Il paziente è camionista, una delle professioni più usuranti dal punto di vista fisico ma ancor più da quello sociale e psicologico. Quanto è sottovalutato questo dato dai nostri libri? Sembra che l’unico interesse medico alle condizioni di lavoro siano le cosiddette “malattie professionali” . Non ti spiega nessuno cosa vuol dire stare dieci ore solo seduto su un camion in mezzo al traffico e poi sentirsi dire : “si dedichi per almeno trenta minuti al giorno ad una attività aerobica all’aria aperta”, ma possibile che nessuno ci dica quanto sia diverso dare questa raccomandazione ad un avvocato piuttosto che a un netturbino? Ad un’insegnante piuttosto che ad un imprenditore? A un pizzaiolo o ad un medico? Non vengono presi in considerazione livello culturale, economico, di usura psicofisica, di stress o di soddisfazione lavorativa.
2- Stili di Vita. Il paziente è sedentario. Ammette una permanente sregolatezza nell’alimentazione, abitudine causata dal lavoro. Ammette che a causa delle molte ore alla guida fumava 80-100 sigarette al giorno e che nello smettere è rapidamente ingrassato di quaranta chili. Il paziente è un forte bevitore, riferisce di bere un litro di vino al giorno che viene abitualmente consumato durante la sola cena, dato che durante il pranzo è alla guida.
3- Il quadro psicologico: nonostante appaia un soggetto lucido, orientato ed equilibrato dal colloquio si registrano alcuni elementi indicativi di disagio. Unendo solamente il forte consumo di alcol, l’alimentazione sregolata e la smodata abitudine al fumo sopracitati possiamo genericamente notare (senza voler essere professionisti) una mancanza di solidità psicologica con forte tendenza a ricercare compensazione in elementi esterni. Se a questo aggiungiamo una scarsa attenzione a farsi carico della propria storia sanitaria (la documentazione sanitaria è stata persa, numerosi anni di scarsa aderenza alla terapia, abbandono di tutti i controlli negli ultimi due anni nonostante il peggioramento dei sintomi) e un riferito episodio giovanile di autolesionismo abbiamo tutta una serie di informazioni che ci mettono in allarme: Probabilmente in questo momento il paziente non è nelle condizioni psicologiche migliori per prendersi cura di sé correttamente.
Più ascoltavo questo signore parlare più mi chiedevo “Ma il problema di quest’uomo è veramente lo scompenso?”. Come spesso accade, mettendo insieme tutti questi elementi, si delinea un quadro in cui le condizioni socioculturali-psicologiche-economiche sono probabilmente causa e conseguenza del quadro sanitario. Se queste non vengono prese in considerazione, allora con tutta probabilità vedremo entrare e uscire questo paziente dagli ospedali per anni. Ma nessuno ci spiega come si affronta una situazione del genere e nei reparti si ignora puntualmente questo dato poiché l’unica preoccupazione è quella di trattare e dimettere.
A noi viene solo insegnato che quest’uomo ha uno scompenso cardiaco e una fibrillazione atriale.