Brescia nell’arte: collezioni aperte alla città
marzo 26, 2014 in Arte e mostre da Laura Giuffredi
Un viaggio nella città, nel suo territorio e tra la sua gente: così può essere inteso il percorso della mostra “Moretto, Savoldo, Romanino, Ceruti . 100 capolavori dalle collezioni private bresciane” (a Brescia, in Palazzo Martinengo, fino al 1 giugno 2014).
Una proposta espositiva che ha il sentore di un ritorno al passato, per quanto riguarda la scelta di opere ed autori, a sancire una netta discontinuità col filone “esterofilo” del ciclo di mostre in Santa Giulia di qualche anno fa.
I dipinti esposti (tra i quali ben 34 inediti) interessano un arco temporale che va dal Quattrocento alla metà del Settecento e appartengono a privati, che hanno accettato di esporle in quest’occasione: dunque un’occasione unica di conoscenza per i visitatori. Opere in origine presenti in storiche raccolte, nel tempo disperse, oggi in parte ospitate in importanti musei nel mondo, in parte ricollocate in collezioni di nuovo conio, di aristocratici, industriali, professionisti.E così ricompare Brescia, con la sua devozione severa, con i suoi popolani dignitosi impastati di verità, in gesti composti ed abituali; con la sua nobiltà austera, parca di merletti e gioielli, dagli sguardi composti e un po’ trasognati (bellissimo il ritratto di Giovanni Maria Fenaroli, nella sua realtà di vecchio, priva d’idealizzazione).
La Brescia, anche, di un collezionismo divertito, che accumula dipinti dove gnomi ed animali fuori scala si accapigliano in un “divertissement” senza scopo (due intere sale sono dedicate alle “allucinazioni” di Bocchi ed Albrici) o dove la “natura in posa” si mostra rigogliosa di fiori o si dispone su un tavolo, pronto per la preparazione di un banchetto (tra gli altri, Ceruti, Baschenis, Nuzzi).
E ancora, il collezionismo “di genere” squaderna una teoria di “pitocchi” che ammiccano, con fisionomie argute, o stravolte ed abbruttite presso un boccale di vino, stingendo le tegole delle carte da gioco, tentando di barare.
I loro stracci mal cuciti li infagottano malamente: terroso è il loro colore, come quello dei visi e degli sfondi.
La mostra consente di percepire, in particolare per questo Seicento, il problematico rapporto tra uomo e natura, ove quest’ultima pare “matrigna” e gli individui piccoli di fronte alla sua suggestiva, talvolta terrificante incombenza. Uomini spesso grotteschi e fragili davanti alle molteplici prove di forza cui la vita li sottopone.
Ma il percorso a palazzo Martinengo parte dall’ esempio goticheggiante e luminoso del Maestro Paroto e dalle sagome allungate e dai visi bruniti dei Santi Giovanni Battista e Stefano di Foppa della prima sala, per proseguire poi con le lacche e le campiture leggere di Moretto, Romanino, Savoldo: brillanti impasti di colore, vibranti di luce, dove il gusto tardo-gotico lombardo, prima, il lume del Rinascimento veneto, poi, si coniugano nella “brescianità. In quell’aura “di confine”, tra la Milano di Leonardo e la Venezia di Tiziano, che produsse tra la metà del ‘400 e la metà del ‘500 risultati non scontati.
Intimità di sguardi e di gesti, equilibrio di cromie, con lo sfondo d’inconfondibili paesaggi prealpini, sfumati nell’azzurro dato dalla lontananza all’orizzonte.
Si vedano così la “Visitazione” del Moretto
o il “Riposo durante la fuga in Egitto” del Savoldo o ancora le quiete sacre conversazioni di Romanino.
Da queste prime sale, attraverso il già citato intermezzo del collezionismo di genere, e qualche brandello di vedutismo (dal Bellotto di “Bacino di San Marco dalla Riva degli Schiavoni” a Francesco Battaglioli, con le sue inquadrature a volo d’uccello sulle piazze bresciane) si approda alle ultime, ove il percorso trova coronamento in alcuni dipinti del cosiddetto “ciclo di Padernello”, dove Giacomo Ceruti esprime il meglio di quel repertorio di soggetti per i quali è universalmente noto, nel filone del migliore naturalismo lombardo: qui sono esposti capolavori come “Donne al lavoro”
“La spillatura del vino”, “Due ragazzi che giocano a carte sulle ceste”. Qui non si tratta più di “pittura di genere”, ma di realtà, che si esprime in veri e propri ritratti di “uomini precisi”, come li definì Testori.