Betlemme, il Muro e le mani di pane [11]
giugno 26, 2014 in Palestina da Sonia Trovato
Disponibile in traduzione inglese di Anna Zorzi
Ich bin ein Berliner – Sono un berlinese – proclamò a gran voce il Presidente degli Stati Uniti John Kennedy nel 1963, in occasione della visita a Berlino Ovest. Oggi John Kerry, Segretario di uno Stato che, atteggiandosi da sempre a gendarme del mondo, sta monitorando il processo di “pace” tra Israele e Cisgiordania, non si sognerebbe mai di dichiararsi un palestinese. Se lo facesse, insorgerebbero immediatamente tutte le comunità ebraiche del pianeta, a Netanyahu verrebbe un coccolone e Israele si comporterebbe come un amante offeso e tradito. Eppure il Muro che dal 2002 separa lo Stato ebraico dalla West Bank ha numeri ben più scioccanti della barriera che spaccava in due Berlino: nel progetto, la mostruosità israeliana dovrà essere lunga più di 700 chilometri, contro i 106 tedeschi, e alta dagli 8 ai 10 metri, contro i 3,6 metri dell’antenato berlinese. A parte qualche timido rimbrotto dalla corte dell’Aja, non sembra che i capi di Stato o le orde di villeggianti manifestino sdegno di fronte alla vista della città sacra sfregiata da colate di cemento armato. Sì, abbiamo visto il muro, risponde con noncuranza una coppia marchigiana incontrata in un bar fuori dalla Basilica della Natività. E ieri siamo stati a Hebron… è curiosa. Curiosa? Cosa potranno intendere? È curioso che esista una città storicamente araba la cui arteria principale sia oggi interdetta ai palestinesi? Sono curiosi i continui arresti di minori? Le perquisizioni notturne? La confisca dei negozi? Sono curiosi seicento fanatici fascisti che comandano su 150 mila persone disarmate? Ti allontani prima di lanciarti in una violenta filippica sulle contraddizioni di questi pacchetti turistici, che organizzano pellegrinaggi in Terra Santa nascondendo sotto il tappeto l’apartheid, il sangue, la prevaricazione. D’altro canto, Betlemme è in territorio cisgiordano, eppure il turismo è monopolizzato dalla gestione israeliana, che pianifica itinerari già all’arrivo all’aeroporto di Tel Aviv, togliendo ai palestinesi anche questa preziosa fonte di sostentamento e impedendo ai viaggiatori di comprendere le ingiustizie compiute in nome della stella a sei punte.
Forse aveva ragione quell’anziano palestinese il quale, alla vista del writer Banksy impegnato a graffitare il Muro, gli intimò di tornarsene a casa, perché stai dipingendo il Muro, lo rendi bello e noi invece non vogliamo che sia bello, noi odiamo questo Muro. Il londinese rispose che un muro di 700 chilometri non chiede altro che essere dipinto. Forse il Muro andava lasciato in tutta la sua bruttezza, esibito in tutta la sua mostruosità, per avere più speranza di scuotere il turista beota che, dal finestrino di un pullman a targa gialla, lo fotografa come se fosse di fronte a un quadro del Louvre o degli Uffizi. Eppure, mentre costeggiate a piedi quell’obbrobrio spaventoso, rimani incantata dalla capacità di raccontare la bellezza nella tragedia. Se s’insegnasse la bellezza alla gente la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura, l’omertà ha scritto Peppino Impastato. Probabilmente, il Muro decorato che state affiancando vuole dirvi proprio questo: la bellezza e l’arte come antidoti all’orrore di chi non conosce la bellezza, ma solo addestramenti militari, check point e filo spinato. E allora no, non aveva ragione quel signore che fustigò Banksy, perché i palestinesi hanno una potente arma contro la rassegnazione, contro la paura, contro l’omertà, la stessa che dà coraggio ai gazawi e fa muovere le loro gambe in strepitosi parkour di fronte ai cecchini.
L’80% del territorio di Betlemme è stato inghiottito dalle fauci del Muro e risputato irriconoscibile, violentato, deformato. Lo sa bene Claire Anastas, la proprietaria di un negozio di souvenirs che si è trovata, all’improvviso, la propria casa circondata dalla raccapricciante colata di cemento e che ha visto la propria privacy completamente compromessa da una torretta di controllo. Lo Stato d’Israele è in guerra contro il terrorismo per difendere la propria casa e il governo israeliano ha deciso di estirpare dalle radici l’infrastruttura del terrorismo nei territori palestinesi ha strombazzato Sharon nel 2002. È bizzarro che una barriera di difesa che dovrebbe estirpare il terrorismo si prenda l’acqua, la terra, le abitazioni, il tempo, il lavoro di un intero popolo. E ad essere vessate sono anche le proprietà e le istituzioni cristiane, che, se subissero la metà delle angherie da parte di uno Stato arabo, avrebbero dalla loro l’indignazione dell’intero mondo occidentale e un esercito di caschi blu pronti a una “missione di pace”.
A Betlemme non c’è solo il Muro a fare da nota stonata alla piazza principale tirata a lucido e imbellettata di lustrini e decorazioni natalizie. Nella città che ha dato i natali a Gesù Cristo, sorge uno dei più grandi campi profughi della West Bank. Aida dovrebbe etimologicamente rappresentare “colei che ritorna”, ma il paradosso di nascere sfollati nella propria terra non è ancora stato sanato. Aida vi si presenta ancor peggio del campo di Balata a Nablus: sorge in un anfratto nascosto, di fronte al Muro, tra sacchi di immondizia accatastati e residui di cenere. Il personale UNRWA è in sciopero e i profughi risolvono il problema dello smaltimento dei rifiuti mettendo mano all’accendino e aggiungendo l’intossicazione da diossina alle precarie condizioni di salute e di vita cui sono condannati da più di sessant’anni*. Al malcontento dei dipendenti delle Nazioni Unite si aggiungono le tensioni per la visita e le dichiarazioni di Kerry, che ha proposto di mettere fine al dramma dei profughi sfruttando le terre inabitate in Australia e in altri luoghi sperduti.
Come a Gerusalemme, ti senti troppo lontana dallo spirito vacanziero e decidi di riempire il tempo che dovrebbe essere impiegato per la visita alla Basilica della Natività andando alla ricerca del chiosco dove, parola di Mike, fanno il miglior falafel della Palestina. Mentre provi a rintracciarlo sulla mappa, un venditore ambulante ti blocca e ti mostra un misterioso incartamento che emana un odore terribile: quella, proclama orgogliosamente il baffuto e allampanato commerciante, è monkey’s meat. Lo guardi inorridita, immaginando l’animale che desideravi ardentemente da bambina, quell’animale che avresti voluto trasformare nella tua dama di compagnia, fatto a pezzi e ridotto alla puzzolente bustina bianca che ti è stata forzatamente affibbiata. Monkey?! Monkey?! – No no no, sorry, donkey, e mima l’andatura e il raglio dell’asino. Sorry but I’m vegetarian – Yes yes, no vegetables, meat. Gli riservi dapprima uno sguardo perplesso, poi, pensando alla scena vista da fuori (il baffuto e allampanato che raglia con la schiena piegata e tu che lo osservi con la mappa della città stretta tra i denti per evitare che ti cadano la macchina fotografica e l’incartamento maleodorante), ti lasci andare a una risata sguaiata, che pare offendere moltissimo l’improvvisato macellaio, che si riprende l’asino maciullato e si allontana con stizza.
Nella seconda parte della giornata, avete modo di vedere da vicino gli effetti devastanti che le politiche di conquista israeliana hanno sul paesaggio. Dall’alto della collina dove sorge il villaggio cristiano di Beit Jala, ti si para davanti un monumentale scempio estetico, un criminale stupro del territorio. Quello che fino al 1967 era probabilmente uno degli angoli più verdi e pacifici della Palestina è oggi ridotto a un’interminabile schiera di tetti rossi alla svizzera, l’inconfondibile segno dell’occupazione. A ridosso della collina scorgi una larga strada con galleria, forse l’infrastruttura più moderna che ti sia capitato di vedere in Cisgiordania. Mike ti spiega che quella strada è riservata agli israeliani e ai coloni. Beit Jala, noto nel mondo per la produzione di olio e del vino Cremisan, è schiacciato tra due insediamenti illegali ed è ulteriormente minacciato dal nuovo progetto del tracciato del Muro, il quale, regalando altri ettari allo Stato ebraico, priverebbe 58 famiglie della propria terra. Per questo, ogni venerdì si svolge la messa di protesta di padre Ibrahim Shomali, messa che riunisce fedeli e attivisti in un incantevole fazzoletto di verde attraversato da ulivi.
Inizia la funzione e molti compagni di viaggio si uniscono alla preghiera, una preghiera vivace, colorata, una preghiera linguisticamente ibrida, che mescola l’italiano, l’arabo, l’inglese, l’ebraico. Altri compagni, quelli più irriducibilmente atei o anticlericali, si appostano ai margini. Tu stai per raggiungere la seconda categoria, quando scorgi Mike solo, seduto su un muretto. Decidi di fargli compagnia e, mentre un Salam Aleikum canterino si vibra nell’aria, senti una totale condivisione di pensieri e di emozioni con quello che è diventato il nonno o il padre della comitiva. E sei costretta a ricacciare l’ormai noto magone pensando al ritorno sempre più imminente. Come si fa a tornare? A riprendere il tran tran del lavoro e delle serate con gli amici, lasciando Mike, la sua famiglia e tutti gli altri a lottare per un po’ di dignità, per una vita che non preveda il costante terrore del controllo dei documenti, dell’arresto arbitrario di un parente o di un amico, di una irruzione militare? Se una settimana ti è sembrata intensa quanto un’intera vita, di colpo ventisei anni – anni di costanza, di studio, di impegno, di legami affettivi indissolubili e intensissimi – ti sembrano sbiadire, perdere colore, ti sembrano prove imperdonabili di un privilegio che non hai mai compreso, il privilegio di nascere in un Paese ricco e in pace. Ci metterai mesi a risolvere questo dissidio e a capire che, al contrario, questi privilegi sono da difendere proprio perché si tratta di diritti inalienabili di cui tutti dovrebbero godere: il diritto alla casa, il diritto all’istruzione, il diritto alla salute, il diritto all’affetto. Aver visto da vicino questo popolo, la sua capacità di resistere, il suo amore per la vita mi aiuterà a vivere meglio quando rientrerò in Italia vi ha detto un giovane volontario di Operazione colomba ad At-Tuwani. Mike, che sembra intravedere sul tuo volto questo malinconico flusso di pensieri, ti fa un’affettuosa e bonaria carezza. Guardando la sua mano che ritorna al punto di partenza, ti viene in mente la descrizione che Calvino fa di Cugino, l’uomo che, nel Sentiero dei nidi di ragno, conduce il bambino Pin nella sua sgangherata banda di partigiani. L’uomo lo ha preso per mano: è una mano grandissima, calda e soffice, sembra fatta di pane. Anche Mike ha le mani di pane e ti fa sorridere aver fatto un simile accostamento proprio nella città che, in ebraico, rappresenta la “Casa del Pane”. Dando le spalle alle atrocità edilizie delle colline retrostanti, puoi lasciarti andare al sogno di una resistenza palestinese diventata letteratura; al sogno delle mani di pane di Mike e di tutti gli altri trasformate in parti mitiche di questa epopea partigiana; al sogno, dunque, di una resistenza palestinese finalmente vittoriosa.
Qui, sui pendii delle colline, dinanzi al crepuscolo e alla legge del tempo, / vicino ai giardini dalle ombre spezzate, / facciamo come fanno i prigionieri, / facciamo come fanno i disoccupati: / coltiviamo la speranza (Mahmoud Darwish).
*Non sono pervenute proteste o reazioni da parte di Roberto Saviano, che ha costruito una fortunata carriera raccontando gli sversamenti tossici nel casertano e nel napoletano, ma che evidentemente giudica la diossina palestinese meno nociva di quella partenopea.