Bestiari e teofanie
settembre 7, 2019 in Letteratura, Recensioni da Laura Giuffredi
“Uscì dunque Noè con i figli, la moglie e le mogli dei suoi figli. E tutte le fiere, tutto il bestiame e tutti i volatili e tutti i rettili che strisciano sulla terra, secondo le loro famiglie, uscirono dall’Arca” ( Genesi, 8, 18-19).
Così la rassicurante scena biblica riferisce del ritorno sulla terra ferma dei viventi reduci dal Diluvio Universale: ma cosa avrebbero colto del nuovo mondo, finalmente riconciliato con Jahve, se si fossero trovati ad affrontare il ponderoso saggio e il lessico a dir poco astruso di Marzia Minutelli (L’arca di Saba,”i sereni animali che avvicinano a Dio”, Olschki, 2018)?
E cosa direbbe soprattutto Saba, poeta tanto conscio del proprio valore quanto difensore della rima “fiore amore, la più antica difficile del mondo” ?
Il testo ha poco a che fare anche con lo stupendo Chagall in copertina (Le mariés de la Tour Eiffel), eloquente nel suo disarmante candore.
Arduo infatti mettere in fila i seguenti termini, che si affollano implacabili nelle pagine della studiosa: artatamente, deuteragonisti, escusso, esperita, fededegna, ingredito, inluiarsi, liminare, tredonico truistica, e via di questo passo.
Eppure la tesi è tanto semplice quanto condivisibile: sebbene gli studi critici sull’argomento “animali in Saba” siano scarsi, essi animali sono detentori, scrive l’autrice, di “un’originaria purezza illesa dalla storia” ed espressione, per il poeta, di elementari “epifanie del sacro”: così la celeberrima pollastra e gli altri animali da cortile, persino il maiale, pur se escluso da Saba stesso dall’ultima edizione della sua raccolta.
E così, sia il “Cantico dei Cantici” sia i “Salmi” e persino i “Proverbi” si connettono ai testi sabiani più riusciti, uno su tutti “A mia moglie”, rimarcando la sostanziale identità dei viventi agli occhi dell’Altissimo. Questo non bastò a convincere Lina, a quanto sappiamo non entusiasta dell’accostamento con una comunissima pennuta e Minutelli coglie in ciò una riprova dell’inettitudine di Saba alla vita di coppia, come anche alla paternità, con conseguente senso di colpa, oggetto dell’indagine anche di altri studiosi.
In ogni caso si può certamente concordare con l’idea che l’abbassamento del punto di vista del poeta/osservatore (poeta “agens”) ad altezza animale permetta a lui ed a noi di cogliere angolature visuali precluse ai “ciechi mortali”. Giustamente l’autrice ci ricorda, infatti, che “Chiarezza” si sarebbe dovuta inizialmente intitolare la raccolta poi battezzata “Canzoniere”.
Ma è proprio lei, rapita nel suo compiaciuto linguaggio “alto”, a non aver scelto la chiarezza come obiettivo primario, a discapito di chi, leggendola, volesse accostarsi amorevolmente a Saba, come lui stesso, si può credere, avrebbe sperato.
Viene assai spontaneo perciò evocare l’anonimo secentista, su cui Manzoni calò la scure dell’ironia: “Ma quando io avrò durata l’eroica fatica di trascriver questa storia da questo dilavato e graffiato autografo, e l’avrò data, come si suol dire, alla luce, si troverà poi chi duri la fatica di leggerla?”