La barbarie di Lety, il più grande lager ceco per zingari
gennaio 27, 2015 in Approfondimenti da Sonia Trovato
“Ognuno è l’ebreo di qualcuno”
(Primo Levi, Se non ora quando?)
Quando si arriva a Praga e si scambiano anche solo due parole con chi ci è nato o ci abita, una delle prime etichette incollate, con orgoglio, sul profilo della capitale ceca è quella di una città sicura, senza delinquenza. Ma capita spesso che, nel finale della conversazione, lo sguardo si abbassi, il volto si faccia torvo, la voce si pieghi in un tono cupo e che la conclusione sia un perentorio “Ma attenta agli zingari”. Quello che le rapide chiacchierate sul tram non rivelano, forse per sincera ignoranza, e che gli zingari di Praga trovarono, proprio in patria e per iniziativa locale, la morte durante la Seconda guerra mondiale.
Furono infatti 1400 i rom e i sinti internati a Lety, il più grande campo di concentramento per zingari in Repubblica Ceca, portato alla luce dalle meticolose ricerche d’archivio del poeta americano Paul Polansky. Nel lager di Lety, nella Boemia meridionale, morirono oltre 300 persone, di cui 240 bambini. Gran parte dei restanti 1100 venne stipato su treni merci diretti ad Auschwitz e andò a finire nei tragici numeri del Porrajmos, nome che indica lo sterminio, da parte dei nazisti, di oltre 500 mila zingari. Ma queste sono le contestatissime cifre ufficiali. Secondo l’autore statunitense, molti detenuti furono registrati con lo stesso numero e gasati in fatiscenti furgoni, per poi essere gettati in fosse comuni, andando a ingrossare le fila di un massacro che vide perire il 90% degli zingari cechi. Quella che segue è uno degli scioccanti racconti raccolti da Polansky su Lety:
Un lavoro da bambini
Tutti a Lety dovevano lavorare,
anche noi bambini.
Ogni mattina venivamo
portati nella foresta
a prendere legna secca.
Dovevamo accatastare questa legna
accanto ai cadaveri
In modo che potessero essere bruciati.
Dietro il campo era stata scavata
una buca profonda in modo che
gli zingari che scappavano
ci sarebbero caduti dentro.
Se un prigioniero veniva trovato
nella fossa gli sparavano.
Poi dovevamo portare la legna
per bruciare anche il suo corpo.
Dovevamo anche portare la legna
per bruciare i corpi nudi
delle donne usate dalle guardie,
e di quelli che morivano di tifo,
e di quelli che le guardie affogavano
nei fusti di acqua piovana e nel lago.
Quando i bambini si ammalavano
il dottore faceva
un’iniezione
sul cuore, e dovevamo
bruciare anche i loro corpi.
Ricordo quando ho dovuto
portare pezzetti di legno
per bruciare il corpo
del mio fratellino appena nato.
Gli avevo dato il mio pane,
ma non è stato sufficiente.
La foresta nominata nella poesia apparteneva alla tenuta dei ricchi Schwarzenberg, che sollecitarono la costruzione del campo di lavoro per utilizzare gli zingari come manovalanza gratuita e sfruttata, affinché recuperassero diecimila ettari danneggiati da una nevicata del 1939. Oggi, su quella terra grugniscono maiali all’ingrasso, dato che è stato edificato un allevamento suino tuttora attivo. Dopo la divulgazione dell’inchiesta di Polansky – inchiesta che portò alla luce 40 mila documenti coperti dal segreto di Stato e che mise lo scrittore sulle tracce dei pochi sopravvissuti – la presidenza Havel celebrò una frettolosa messa e si schermì subito dietro un’imbarazzante reticenza. Le testimonianze raccolte dall’attivista statunitense confluirono, nel 1998, nel libro Black silence, duramente osteggiato in Repubblica ceca (abbiamo provato, inutilmente, a rintracciare l’opera in almeno cinque librerie praghesi). Da allora, la cortina di silenzio non è mai caduta e sono stati innalzati muri simbolici e muri in cemento armato, come quello costruito a Usti nad Labem, per segregare, in quanto “rumorosa e antigienica”, la popolazione rom.
Riportiamo le parole di Polansky: Nell’odierna Repubblica Ceca non ci sono più i nazisti tedeschi a imporre al governo ceco la sua politica nei confronti di sinti e rom. Quindi il Paese non ha più alcuna scusante per le molte persone appartenenti a questa minoranza che tuttora si vedono costrette a fuggire e a chiedere asilo politico in altri Paesi. Nel 1996 ho vissuto in prima persona i motivi per cui così tanti sinti e rom fuggono dal Paese. Ospite in un insediamento rom, ho visto con i miei occhi le pattuglie della polizia ceca scaricare gruppi di skinheads di fronte all’insediamento che poi avrebbero attaccato, e leggendo gli articoli attuali nella stampa ceca capisco che nulla è cambiato. Nella Repubblica Ceca i rom continuano ad essere aggrediti in casa propria, qualche volta muore qualche bambino rom ma pochi ne sembrano veramente preoccupati.
La Convenzione di Helsinki prevede l’istituzione obbligatoria di un luogo del ricordo per i campi di morte della Seconda guerra mondiale, ma la dirigenza ceca continua a procrastinare, adducendo la scusa dell’elevato costo dell’acquisto dell’allevamento (800 milioni di corone ceche, pari a 28 milioni di euro circa. Cifra gonfiata, secondo Polansky). Risultato: i 5 mila maiali che defecavano nel 1998 sui resti delle baracche di legno e delle fosse comuni sono diventati 20 mila.
Così, in occasione della giornata della memoria, in una città bardata da settimane di insegne luminose che solidarizzano con la Francia fregiandosi dell’ormai noto Je suis Charlie, si darà nuovamente prova del fatto che fare i conti con gli orchi di casa propria è un’operazione di coraggio e di giustizia di cui non è capace nemmeno la celebrata e civile Mitteleuropa.
Pensavo di essere sopravvissuta
Sono sopravvissuta alle bande della gioventù hitleriana
scappando a Praga.
Dopo che mi hanno portato a Lety
sono sopravvissuta:
fame,
fucilazioni,
iniezioni letali,
squadre di lavoro,
pestaggi
stupri
tifo
e annegamenti
nel fusto di acqua piovana.
Dopo la guerra volevo una vita migliore
ed ho sposato un uomo bianco.
Solo uno dei miei otto figli
ha ereditato la mia pelle scura di zingara.
Ora lui è in ospedale
a riprendersi da due operazioni
dopo che gli skinheads
lo hanno impalato su un palo metallico.
Non so se sto vivendo
nel 1939 o nel 1995.
Pensavo di essere sopravvissuta,
ma credo di aver solo
barcollato senza arrivare da nessuna parte.