Arturo Martini, dove “l’ombra resta un caso”
luglio 7, 2014 in Arte e mostre da Laura Giuffredi
Maria sta in attesa, sospesa, le mani unite in grembo, il capo leggermente reclinato da un lato, contro il lembo della cortina entro la quale, alle sue spalle, penetra l’Angelo annunziante, col volto rivolto verso l’osservatore, a renderlo consapevole dell’emozione del momento di cui sottolinea, con discrezione, l’inviolabilità. Entro la pura geometria conica, impenetrabile, di questa piccola “Annunciazione” (terracotta da stampo, 1927) si compie il mistero della generazione e della vita.
Questa ed altre opere di piccola o media dimensione popolano, fino al 22 luglio ’14, le sale al pianterreno della Galleria dell’Incisione, a Brescia.
Forme conchiuse, severe, materiali poveri, nobilitati da un respiro classico di compostezza ed equilibrio. che negli anni ’20-‘30 ( le opere esposte appartengono quasi tutte a questo periodo) rimandano alla proposta di Carrà.
Non c’è qui nessuna retorica (nemmeno quella celebrativa, di Regime che gli venne attribuita a lungo come unica chiave di lettura, corretta dalla riflessione critica ora in corso), ma la ricerca di gesti essenziali, primitivi: come quello che avvicina San Marco e San Giusto (bronzo, 1934): i due incedono l’uno verso l’altro, gli occhi negli occhi, le mani si stringono a passarsi il testimone del martirio, senza tentennamenti.
I soggetti religiosi sono numerosi, rappresentati con una vena narrativa eloquente pur se compressa, concisa e sintetica (presente anche nella perduta “Annunciazione” a bassorilievo, già nella bresciana piazza della Vittoria).
Nel “Presepe piccolo” (1927) la storia si snoda “a salire” lungo un semi-cilindro verticale, che comprende persino, oltre ai personaggi di rito e all’intersecarsi dei cavalli dei Magi, elementi paesaggistici (cipressi).
Nella “Fuga in Egitto” (1927) il manto di Maria, versante della composizione piramidale, ingloba tutto il gruppo, come in una pierfrancescana Madonna della Misericordia.
Monocromi (terracotta grezza, o velata da una campitura scura, bronzo o gres) che rappresentano il corpo umano nello spazio: un repertorio infinito di atteggiamenti. Ma Martini stesso ci avvertiva (La scultura lingua morta, Venezia 1945):
(…) il tormento dello scultore non sta nel realizzare un’opera abbandonandosi all’ispirazione diretta, ma nella grande fatica di evitare il già fatto (…)
Fatica, dunque, di arrivare all’epifania di un senso, nella forma d’arte che, a detta ancora dell’autore stesso, rifugge dalla stabilità: si sa, infatti, che nella scultura luci ed ombre non possono rimanere bloccate, preda come sono dei diversi punti di vista e del movimento della luce, come ben teorizzava Medardo Rosso. Ma di questo limite Martini fa una virtù, eliminando piani non necessari, sfumature distraenti, margini complicati, e purificando le sue forme.
Si veda la stupenda “Leggenda di San Giorgio” (1926-27) che compare nella prima sala espositiva. Il gruppo si sviluppa in verticale, ma con diagonali che collegano i punti focali del soggetto: il volto del Santo, perentorio nel suo ovale perfetto (che ricorda ancora Piero della Francesca), il suo gesto, compreso entro il pesante mantello dalle poche pieghe verticali, le spire del drago, il corpo contratto del cavallo ritto sulle zampe posteriori.
Alla semplificazione delle forme fa da contraltare il movimento ritmico loro impresso: le “Amazzoni spaventate” (1935) sembrano danzare nel gioco di braccia e gambe, protese in direzioni opposte come la massa delle rispettive chiome, sospinta da venti divergenti.
E se, per l’autore, non è dato violare il corpo umano o animale oltre il limite che consentono dignità e verosimiglianza, egli prova comunque, specialmente nei disegni o negli esperimenti con sculture in gres smaltato, a disfare le forme più ovvie in superfici vibranti, che si raggrumano solo nel gesto fondamentale (la mano che pizzica la cetra in “Orfeo stante” (1946-47), le fauci digrignate nelle grandi sculture da giardino “Leone” e “Leonessa”, 1935-36).
Lontane, dunque, dalle forse più note “opere di Regime” di Martini (ad esempio la monumentale “Giustizia fascista” realizzata per il piacentiniano Palazzo di Giustizia di Milano nel 1936-37), vicine invece a quelle della Collezione Jesi a Brera, queste sculture esprimono una dimensione intima, a tratti drammatica, a conferma comunque dell’impossibilità di costringere l’autore entro i limiti angusti di una classificazione rigida per “scuole” e “movimenti”, con i quali certamente a tratti si riconobbe (Ca’ Pesaro, Secessione Romana, Novecento, Valori Plastici, Muralismo), ma che non lo rappresentarono mai pienamente.
Lavoro sempre, con lucidità, modificando, granellino a granellino; mi basta, perchè penso che ogni piccola cosa può essere in questo senso una montagna, tanto più che ho tanto ancora dentro di sordo che aspetta l’attimo di luce per comparirmi, meravigliarmi (Arturo Martini, Le lettere, 1909-1947), Firenze 1967).
Così il gesto de “Il perdono” (1925-26) rivela, nella sua sacralità, rappresa entro l’angusta cornice della scatola prospettica, il ricucirsi di un rapporto umano, nonchè di un legame irrinunciabile tra uomini e Natura.