Andata e forse ritorno: è così semplice emigrare dall’Italia (1)
febbraio 1, 2015 in Fuga dall'Italia da Chiara Zonta
È domenica 18 dicembre e sono passati esattamente due mesi da quando sono qui. Da quando sono diventata ufficialmente una migrante. Come lo sono tanti giovani e meno giovani italiani come me. Come lo furono i miei nonni. Sì, perché anche loro, insieme a tanti della loro generazione, salparono il mare per tentare la fortuna e regalare un futuro migliore ai loro figli. Ora a partire sono i loro nipoti, con sentimenti ed ambizioni simili. E per quanto sia bello e arricchente viaggiare e vivere in nuovi Paesi, sentirsi costretti ad andarsene è anche triste. Questa nuova ondata di emigrazione mi sembra una grande sconfitta per l’Italia.
Sono qui da solo due mesi, eppure mi sembra sia passata un’eternità dal sabato notte in cui sono atterrata all’East Midlands Airport, disorientata, ancor più perché ero rimasta incosciente per quasi tutto il viaggio. Sono crollata – dopo la tensione emotiva e la stanchezza accumulate nei giorni precedenti il commiato – ancora a Treviso, in Italia, e mi sono svegliata dall’altra parte della Manica.
Quelle prime ore sono ancora vividissime nella mia mente, nonostante sia cambiato tutto.
C’era una nebbia fittissima ed era freddo, molto freddo. Ho atteso il bus, sono scesa alla mia fermata. Mi hanno accolto strade deserte, case addormentate e tutte uguali, un corteo spettrale ed immobile. E io arrancavo nel mezzo, con un trolley enorme, una valigia gigante, un bagaglio a mano ben poco portatile e la borsa straripante, imbacuccata in qualche maglione di troppo – che in valigia non era proprio entrato. Una goffa presenza del tutto fuori posto. Infreddolita e accaldata insieme, confusa, sola, trascinavo avanti quello che mi ero portato della mia vita.
Il tragitto verso la mia nuova casa è stato un pellegrinaggio infinito e sfiancante.
Quando infine sono entrata nella mia stanza, ho tirato un sospiro di… sollievo? Almeno ero arrivata. Ho aperto e chiuso le valigie almeno una decina di volte prima di riuscire a trovare tutto l’occorrente per preparare il letto, mettere il pigiama, lavare viso e denti e, infine, infilarmi sotto le coperte. E lì, al buio, in una stanza così estranea, in una casa così estranea, con un paesaggio così estraneo al di fuori della finestra… ho pianto.
Le persone che amo e che mi amano sono così distanti.
Il mattino dopo sono uscita. Avevo bisogno di respirare un po’ d’aria fresca, di fare alcune compere e soprattutto di vedere gente, sentirmi meno sola. Nel corso della giornata ho poi conosciuto i miei coinquilini, nel corso della settimana ho trovato un lavoro, nel corso di questi due mesi mi sono ormai ambientata abbastanza da sapere come muovermi – con chi incontrarmi, dove prendere frutta fresca o calzini caldi, dove sorseggiare birre e sidri, assaggiare pies e roasties, ascoltare gruppi live… – e abbastanza poco da avere ancora molto da scoprire – gente da conoscere, posti da esplorare, esperienze da provare.
Ora (finora) sto bene, qui a Nottingham.
L’idea di partire ha avuto in me una lunga, sofferta incubazione che è poi esplosa in una decisione repentina, tanto improvvisa da parere inaspettata. Sono scattata come un animale che intravede uno spiraglio nella gabbia. I passaggi sono stati pianificati e ponderati razionalmente, certo, ma la scintilla che mi ha mosso è stata diversa. Guardandomi indietro, vi riconosco l’istinto di sopravvivenza. Per questo, ancora oggi, capita che mi fermi in mezzo alla strada, chiedendomi: come ci sono finita qui?
La mia è una storia comune, simile a quella di tanti altri espatriati.
Finito il master a dicembre, ho subito iniziato a cercare lavoro nel mio settore. Ho contattato aziende in tutto il Triveneto, per un po’ volevo fermarmi nella casa dei miei genitori. A febbraio, un’azienda mi ha proposto di lavorare insieme ad un progetto da proporre ad una società loro cliente. I patti erano: ti rimborsiamo le spese di viaggio e, se il progetto funziona, ti daremo una qualche percentuale su quello che ci verrà pagato. Era la migliore offerta che avessi trovato – anche se nello scenario più ottimista non avrei ricevuto un compenso che nell’anno successivo. Intanto avrei fatto gavetta. Il cliente però non riusciva a decidersi, le riunioni si trascinavano, e passavano i mesi.
A marzo ho iniziato a cercare un lavoretto da affiancare alla mia attività di “collaboratrice esterna a progetto”. Ho svolto diversi turni di prova e infine mi hanno assunta in una gelateria, a giugno. Tutti ricordiamo com’è andata quest’estate: il sole è uscito a settembre.
Quando ho scoperto, a fine mese, che anche per il progetto per il quale avevo collaborato assieme ad altri volontari (ancora gavetta) nei tre anni precedenti non sarebbe stato minimamente retribuito perché, in parole povere, i fondi erano stati distribuiti ai soliti amici degli amici all’ultimo coinvolti (apportando contributi che, tra l’altro, hanno danneggiato se non vanificato il lavoro precedente)… ho detto: basta. Cosa ci facevo ancora lì?
L’idea che avevo covato in un angolino della mente per tutto il 2014, senza mai crederci veramente, all’improvviso è diventata la soluzione, l’unica. Andare. Partire. Emigrare.
Ok, dove?
Nel giro di un mese ero a Nottingham. E mi sono detta che ci resterò almeno per sei mesi. Il programma era e rimane questo: cerco da subito un lavoretto per guadagnarmi da vivere, poi mi informerò per qualcosa di più attinente al mio percorso di studi. Ora sono nella seconda fase, eppure tentenno: voglio davvero trovare un altro motivo per rimanere?
[continua]