Alinari: paesaggi italici nella Divina Commedia
aprile 10, 2017 in Album fotografici, Letteratura, Recensioni da Pino Mongiello
Tra i ricordi della Divina Commedia che mi giungono dagli anni di scuola, quelli che evocano il paesaggio italico non sono tra gli ultimi di una ipotetica lista degli “oggetti” del poema. La cosa è facilmente spiegabile: non vi è città in Italia che non abbia una via o una piazza intitolata al sommo poeta e, addirittura, non c’è luogo, anche il più romito, che non ne testimoni il passaggio o la sosta effettuati lungo il suo tormentato esilio. Dante avrà davvero visto tutti i luoghi che menziona nelle terzine delle sue tre cantiche immortali? Non possiamo esserne certi dal momento che non esistono conferme; possiamo immaginare però che di molti luoghi egli abbia sentito parlare ed anche letto con quella particolare empatia che tutti gli riconoscono, e per la quale ne restano ammirati. Alcuni di quei paesaggi sono descritti quasi fotograficamente e con una chiara identificazione geografica mentre altri sono solo tratteggiati o semplicemente citati. C’è un altro fatto da considerare: data l’autorità del personaggio, è possibile che nello stesso territorio più siti ne rivendichino la sua storica impronta. È questo il caso, per esempio, del canto XX dell’Inferno, dove il poeta descrive il lago di Garda con riferimenti così puntuali da farci capire che quei luoghi li aveva visti di persona.
Ma se si cerca di stringere il cerchio e si vuole segnare sulla cartina il punto esatto della sua osservazione, ecco emergere i campanilismi e le discussioni che non ci consentono di stabilire una localizzazione certa. Chi potrebbe dire quale sia il «Loco (è) nel mezzo là dove ‘l trentino/ pastore e quel di Brescia e ‘l veronese/ segnar poria, s’e’ fesse quel cammino»? Dante non si curava di comporre i suoi versi per una guida turistica. Egli guardava con altri occhi la penisola italiana: nei suoi sguardi e nelle sue contemplazioni ci stava un intreccio di pensieri, di emozioni, di pulsioni che nascevano dalla sua formazione culturale e artistica, storico-letteraria, scientifica, politica, filosofica, religiosa. C’è nelle sue rime tutto un mondo che non si lascia racchiudere in una sola direzione: il suo è un universo ricco di rimandi e di riferimenti esistenziali. I suoi paesaggi sanno assumere un alto valore simbolico. Di questa ricchezza dantesca era ben consapevole il fotografo Vittorio Alinari quando si accingeva a realizzare l’opera editoriale Paesaggi italici nella Divina Commedia, pubblicata a Firenze nel 1921 e riproposta qualche anno fa da ALINARI 24 ORE per Dante 2021, a cura di Domenico De Martino. Nell’opera, che non si limita ad essere un semplice album fotografico, entrano in gioco due cose: l’identificazione dei paesaggi italiani, spesso difficile da cogliere a distanza di cent’anni, e lo specifico fotografico, inteso come linguaggio dalle proprietà espressive e comunicative che vanno oltre il dato documentale. Erano tempi, quelli in cui Vittorio Alinari usava la macchina fotografica, che ancora ne rendevano difficile l’emancipazione: cioè, la fotografia doveva continuare a rimanere relegata nell’ambito della riproduzione tecnico-visiva di un oggetto, e non poteva permettersi di esprimere alcuna soggettività. Era impedito alla fotografia di entrare nel novero delle arti. Contro questi veti, rivelatisi presto ingiustificati, il lavoro del nostro fotografo invece, con la collaborazione di alcuni noti esponenti del pittorialismo italiano di quegli anni, ha dimostrato efficacemente le potenzialità espressive dell’immagine che veniva prodotta. È così che riusciamo a leggere, e a comprendere, certi toni intimistici, certi effetti del viraggio e dei chiaroscuri, nonché il variare sulle immagini della gamma cromatica dai rossi ai gialli, ai verdi. In tal modo le potenzialità artistiche della fotografia arrivano persino a mettere in luce precisi riferimenti alla pittura simbolista: si pensi, ad esempio, a quella scalinata di S. Miniato, così onirica e così vicina alla sensibilità di un Böcklin.
I paesaggi fotografati da Alinari si caratterizzano per i vuoti e le assenze: non v’è traccia di uomini né di animali, come se un misterioso evento li avesse cancellati. I cieli, per lo più, non variano da foto a foto: le nuvole sono quasi sempre bianco-grigie. I cirri sembrano tramutarsi in anime. I borghi hanno perso la loro integrità, giacciono diroccati e scarni, come gli alberi e i ponti. Si tratta di un paesaggio reale, certo, ma che al tempo stesso rimanda a un oltre, a un aldilà: paesaggio da inferno o anche da purgatorio. Spesso la bufera incombe sulle cose; la calma, quando c’è, è solo apparente, come nella foto che ritrae la piana di Campaldino; il fuoco cola dalla montagna vulcanica; le acque sono spesso livide, torbide o inquiete.
Viene spontaneo richiamare un passo della Lettera ai Romani di Paolo (8, 19-23): « La creazione colpita dal peccato geme e soffre le doglie del parto». A suffragare queste letture sono i due testi, davvero rivelatori, di Maurizio Porro e di Monica Maffioli che introducono le splendide immagini.