Acqua a mano armata nella Valle del Giordano [12]
settembre 20, 2014 in Palestina da Sonia Trovato
Disponibile in traduzione inglese di Anna Zorzi
Mi lascerai mai andare?
Per una vita
Un anno
Un mese
Un’ora
Un minuto
Anche solo un secondo?
(Suad Amiry, Golda ha dormito qui)
Sabato 4 gennaio, ultimo giorno in Palestina. Sin dal risveglio, si respira un clima da fine gita scolastica, anche se questa intensissima settimana ha avuto un peso emotivo che nessun viaggio d’istruzione trascorso ad attendere la baldoria serale avrebbe mai potuto avere. Oggi sarete nella Valle del Giordano, la Campania Felix del Medio Oriente, una lunga distesa di mare, montagne e deserto roccioso, con un clima quasi tropicale. Luisa non c’è e vi ha lasciato nelle mani, le calde mani di pane di Mike, che, già dalla messa in moto del pullman, inizia un’ampia spiegazione sul perché quella sia un’area di cruciale importanza per Israele. Non serve una conoscenza prodigiosa della lingua inglese per capire quali sono le parole chiave del discorso della vostra guida, e cioè terra e, soprattutto, acqua. Secondo gli iniqui Accordi di Oslo, applicati solo per quanto concerne l’assurda suddivisione in zone della Cisgiordania e carta straccia sul punto fondamentale per i palestinesi, ossia il riconoscimento dello Stato di Palestina, la Valle del Giordano è collocata in zona C, zona amministrata civilmente e militarmente dal governo (esercito) israeliano. Il paesaggio che ammirate dal finestrino ve ne chiarisce la ragione: la Valle del Giordano è un paradiso! Ha un clima caraibico 365 giorni l’anno, e questo permette di non interrompere mai la stagione di produzione. E ha acqua, tantissima acqua che proviene dal bacino del fiume Giordano. L’area mediorientale è notoriamente arida e il governo israeliano utilizza il pretesto della sicurezza per garantirsi il monopolio delle risorse idriche. Così, per ragioni di “sicurezza”, il tracciato del muro ha portato dalla parte israeliana le grandi falde acquifere delle provincie di Jenin, Tulkarem e Qalqilya e ha determinato, per i palestinesi, la perdita di accesso a una cinquantina di pozzi. Ancora, una legge del ’67, anno della Guerra dei sei giorni e dell’inizio dell’occupazione della Cisgiordania, stabilisce che i palestinesi non possono costruire infrastrutture idriche senza l’autorizzazione israeliana. In questo modo, Israele si garantisce lo sfruttamento dell’80% dell’acqua della West Bank, compromettendo l’igiene, la salute e la già prostratissima economia palestinese, che è tuttora un’economia prevalentemente agricola. Naturalmente, il bacino del fiume Giordano serve anche a mantenere gli insediamenti illegali e le sterminate piantagioni israeliane di datteri, gli unici due fattori di interruzione di un territorio altrimenti naturale e abitato perlopiù da beduini.
Il fiume Giordano divide la Palestina dalla Giordania ed è considerato un luogo sacro per i cristiani perché, secondo la tradizione biblica, ospitò il battesimo di Gesù. Ogni giorno, frotte di turisti in camice bianco tentano di rivivere il momento mistico immergendosi in queste acque torbide che, vi spiega Mike, sono la destinazione degli scarichi delle colonie. Il confine è segnalato dalla presenza di soldati giordani da una parte e di soldati israeliani dall’altra, nonostante, come già detto, il fiume Giordano divisa la Palestina – e non Israele! – dalla Giordania. I devoti bagnanti non ne sembrano turbati. Già dalla vostra discesa dall’autobus, capite che il vostro aspetto non corrisponde esattamente a quello dei pellegrini che attendono di fare il proprio tuffo sacro. Kefiah e braccialetti sono ormai sul collo e sui polsi di quasi tutto il gruppo, che ha spontaneamente e progressivamente deciso di connotare politicamente il proprio vestiario, per solidarietà alle vittime di questa crudele e capillare occupazione. Che cos’è quello? chiede un soldato a uno di voi – è un braccialetto risponde Luca – E quei colori? bofonchia il soldato. È la bandiera della Palestina” – Palestina? Io non conosco nessuna Palestina è la lapidaria conclusione del militare. Netanyahu sarebbe soddisfatto: il lavaggio del cervello che, come ci ha spiegato la studiosa Nurit Peled-Elhanan, inizia dalla tenera età, ha dato frutti rigogliosi e il bellimbusto in abiti mimetici avrà sicuramente di fronte una sfavillante carriera.
La seconda tappa è una scuola, una scuola fatiscente e in mezzo al nulla, sorta con il supporto dell’Unicef. Due aule, divise per sesso, ospitano, a fatica, una cinquantina di bambini e bambine che non vedono l’ora di farsi fotografare. Il loro entusiasmo è travolgente e toccante, tanto da farti pensare che la capacità di appagamento di un bambino sia inversamente proporzionale al numero di giocattoli posseduti. Bonariamente assaliti dai più scaltri che, già stufi di stare in posa, vogliono assumere il ruolo di fotografi, c’è un empatico e commosso scambio di sguardi con due o tre ragazze del gruppo, con il quale sembrate volervi dire chi ha fatto della cura e dell’istruzione di quei bambini così riconoscenti il proprio scopo di vita non potrà mai avere dei ripensamenti.
La voce di Mike, insolitamente logorroico, vi accompagna fino a Gerico, la “città delle palme”, sede del più vecchio albero del mondo e del Monastero della Tentazione. Concordate con il tassista un prezzo per farvi portare sul monte che ospita il Monastero, non considerando che salire in otto su una vettura da cinque e percorrere una strada strettissima e sterrata non è esattamente il modo migliore per garantirsi un indenne ritorno a casa. Dopo dieci minuti di panico, vi trovate di fronte a una porta sbarrata, segno che quei dieci minuti, oltre a essere stati terrificanti, sono stati inutili. In compenso, davanti all’uscio chiuso conoscete Miguel, un ragazzo spagnolo che Mike accetterà di portare fino a Betlemme e con il quale scambi un interessante scambio di vedute sulla politica italiana (Miguel ha passato nove mesi in Italia come studente erasmus). Ma, lo capisci immediatamente, le beghe nostrane di palazzo, con la loro miserrima piccolezza, difficilmente riusciranno, in futuro, a catalizzare la tua attenzione. Questo viaggio è uno spartiacque, sancisce dei definitivi rapporti di antecedenza e di posteriorità. Per colpa tua / nella mia vita niente è normale / Niente è neutrale / Niente è banale / O persino insignificante scrive Suad Amiry nell’ultimo capitolo del suo Golda ha dormito qui, dove il tu cui si rivolge è, appunto, la Palestina, che è occupata ma che, al contempo, la occupa, occupa tutti i palestinesi, come un’ossessione.
Prima di lasciarvi di fronte all’albergo ad attendere il notturno rientro in patria, il pullman compie altre due soste: la prima nei pressi del Mar Morto e la seconda in un piccolo insediamento di beduini. Il discorso sulla prima fermata si esaurisce in poche righe. Metri di filo spinato, un monumentale cartello di divieto e una comunicazione di accesso a pagamento vi costringono ad ammirare il Mar Morto da lontano. Coi beduini, invece, il cuore si gonfia nuovamente di emozioni. Iniziano a trotterellarvi dietro tre bambini scalzi. Uno di questi, il più mingherlino, ti tira per il dito e ti chiede un generico “Something”. È l’ultimo giorno, non hai più un soldo, né shekel né euro, e temi di aver finito tutte le cibarie che ti sei portata nello zaino per giorni, quando ti rammenti di un chilo di noci acquistato da un ragazzino con un improvvisato banchetto sulla strada per Nablus. Il pensiero di aver fatto un dono inutile è smentito dall’immediata reazione del bimbo, che inizia a saltellare di gioia con un cantilenante “Thank you, thank you” e si tiene stretto al petto il sacchetto di noci, come se fosse la cosa più preziosa del mondo. Guardarlo è felicità pura. Per un attimo, vi isolate tutti, a godervi un irreale silenzio e ad ammirare un panorama che toglie il fiato. Siete in mezzo al deserto e attorno a voi non c’è nulla, niente di niente. Non ci sono insediamenti illegali, non ci sono checkpoint, non ci sono soldati, non ci sono coltivazioni di datteri, non c’è alcuna forma di vita. Esistono ancora, nei vostri Stati metropolitani, luoghi così? Un canto arabo festante mette fine alla quiete: proviene dal vostro autobus e scatena il delirio. Mike, quell’uomo così pudico e composto, dà inizio a un liberatorio ballo di gruppo che coinvolge anche i beduini. Se non ci fosse il tremendo incubo dell’interrogatorio al “Ben Gurion”, il viaggio in Palestina si chiuderebbe così, con un’immagine di speranza e di attaccamento alla vita, concetti certamente estranei ai rigidi funzionari dell’aeroporto di Tel Aviv.