A Lisbona sulle orme di Pessoa
ottobre 22, 2016 in Album fotografici, Letteratura da Pino Mongiello
Se Fernando Pessoa (1888-1935) potesse vedere la sua tomba, oggi, ne sarebbe probabilmente sorpreso. Le sue spoglie non giacciono più nel cimitero dei Prazeres, dove furono collocate nel 1935, anno della sua morte, ma nel monastero dos Jeronimos, dove furono traslate nel 1985, nelle cui mura riposano i grandi della Patria, Vasco da Gama e Luìs de Camões. Lui tra i grandi! Lui che, in vita, aveva lasciato trasparire ben poco di quella che si scoprirà, poi, come una vasta e multiforme produzione letteraria, trovata stipata in un baule. Lui, non laureato, che si era dedicato alla professione di modesto corrispondente estero, senza conquistarsi una scena pubblica, ed era stato un frequentatore di locali dove poter bere alcoolici senza regola, e che furono, in fine, la causa della sua morte a soli 47 anni. Di sé, nel 1915, aveva scritto «Se dopo la mia morte volessero scrivere la mia biografia, non c’è niente di più semplice. Ci sono solo due date – quella della mia nascita e quella della mia morte. Tutti i giorni fra l’una e l’altra sono miei». Però non gli dispiacerebbe la sistemazione che è stata fatta della sua sepoltura: un parallelepipedo addossato al muro sulle cui superfici marmoree si possono leggere incisi, per ogni lato, i versi di tre poesie, firmate da tre autori, che non sono altro che eteronimi dello stesso Pessoa: Ricardo Réis, Álvaro de Campos e Alberto Caeiro. Tutti e tre “alter ego” immaginari, quelli più ricorrenti, ciascuno con una propria biografia, una propria fisionomia e con un proprio carattere: coi loro nomi egli firmava spesso i suoi lavori. Finzione letteraria soltanto? O patologia psichica? Non è un caso, comunque, che uno dei libri che meglio rivelano il suo genio abbia per titolo Libro dell’inquietudine. La sua fissazione era «sentir tudo, de todas as maneiras … vivere tutto da tutti i lati, essere la stessa cosa in tutti i modi possibili allo stesso tempo …». Insomma, una vera nevrosi. In un viaggio che mi ha condotto a visitare il Portogallo, specialmente Lisbona e dintorni, non ho saputo rinunciare a ripercorrere i luoghi frequentati da Pessoa nonché quelli, strettamente connessi, battuti dal personaggio di Tabucchi, il giornalista Pereira, caporedattore della pagina culturale di un giornale del pomeriggio durante la dittatura di Salazar. Penso al quartiere Chiado, agli spettacolari miradouros, alle stradine di Alfama, al tram 28. Non posso dire di esserne uscito conquistato e affascinato, ma quell’esperienza non mi ha lasciato nemmeno indifferente. Imbattersi in Pessoa è come entrare in una sala degli specchi dove perdi la cognizione del reale, e dove la realtà si sdoppia e si moltiplica in mille facce. Qualcuno pensa che, politicamente, egli sia stato uno spregiudicato uomo di destra, ma allora bisogna chiedersi come mai, pur essendo stato un nazionalista convinto (né monarchico, né repubblicano, ma solo portoghese) dopo la caduta della dittatura gli sono stati tributati tanti onori dal regime democratico portoghese? Si può anche pensare a una sua affiliazione alla massoneria, ma è indubbio che egli non abbia mai tratto profitto personale da un eventuale simile status. Pessoa oggi è il poeta più amato dai Portoghesi: gli riconoscono il grande, profondissimo amore che ebbe per la sua terra. Fu nichilista e ateo? Quello che è certo, è che sentì il dramma della frantumazione dell’Io. Emblematico il titolo di un altro suo libro: Una sola moltitudine. Come non sentire pietà, e viva partecipazione, nei confronti di un uomo che dice: “Essere poeta non è una mia ambizione. È la mia maniera di stare solo”? E che pensare di questa sua confidenza: “Quando parlo con sincerità non so con quale sincerità parlo. Sono variamente altro da un io che non so se esiste”? Viene voglia di indagare nella sua biografia privata: la morte del padre quando il poeta era ancora in tenera età. La morte della sorellina, un anno dopo la morte del padre. Il trasferimento in Sudafrica. Il ritorno in patria. Il nuovo matrimonio della madre. La separazione dalla madre che ritorna in Sudafrica mentre lui viene allevato a Lisbona da una zia. Gli studi universitari appena iniziati e presto interrotti. Una sola donna amata nella sua vita, Ophelia Queiroz: una relazione iniziata nel marzo del 1920 e finita nel novembre dello stesso anno; fu poi ripresa nel settembre del 1929 per cessare definitivamente nel gennaio del 1930. L’ossessione delle eteronimìe. La corrispondenza epistolare con un personaggio eteronimo, omosessuale, che lo esorta a troncare quella relazione. Ce n’è abbastanza per comprendere il tormento di una personalità inquieta e inafferrabile come la sua. Ecco un saggio del suo tormento, nel pensiero della donna amata: “Quasi anonima sorridi/ e il sole indora i tuoi capelli./ Perché per essere felici/ è necessario non saperlo?” Ed ecco la lucida, spietata descrizione di sé, di fronte alla prospettiva che lo attende: “Non sono nulla, non posso nulla/ non perseguo nulla./ Illuso, porto il mio essere con me./ Non so di comprendere,/ né so se devo essere,/ niente essendo, ciò che sarò.” Nella guida di Lisbona, che Pessoa scrisse nel 1925 (sottotitolo “Quello che il turista deve vedere”), laddove inizia a descrivere il monastero dei Jeronimos, l’autore afferma che si tratta di un capolavoro in pietra che i visitatori non possono mai più dimenticare. Ora, in quel monastero, presso la cappella del chiostro, riposano anche le sue spoglie, sotto la pietra: la stessa pietra che ricorda il molo di Belem, da lui definito il molo della saudade, della nostalgìa. Viene alla mente, guardandolo, la poesia Cippo, inclusa nel volume che ha per titolo Una sola moltitudine (a cura di A. Tabucchi, ed Adelphi), che così conclude: …”il finito mare è greco o romano:/ il mare senza fine è portoghese.// E l’alta croce dice che la febbre/ di navigare che mi brucia in petto/ troverà solo nell’eterna calma/ di Dio il porto ancora da trovare.”