Una natura “illogica” per non essere umani

dicembre 3, 2024 in Approfondimenti, Recensioni da Viola Allegri

Cechov copertinaWalter Benjamin lamentava che i libri fossero pubblicati opportunisticamente seguendo le date del calendario, ma oggi il commercio li ha almeno triplicati e G9 non teme il giudizio di Benjamin sulle ricorrenze, ad es.si occupa a puntate (siamo alla V) di Kafka (cento anni dalla morte). Poi il calendario ci informa che ne sono passati 120 da quella di Anton Cechov, di cui si è ricordata l’editrice Adelphi ripubblicando il libro unico e meno letto di Cechov, L’isola di Sachalin, curato da Valentina Parisi, con fotografie provenienti dal Museo della letteratura di Mosca: un’opera senza un corridoio letterario in cui inserirlo.

Cechov era un buon medico ma tradì a lungo la medicina per la letteratura, oltre a vivere a lungo con ambedue, fino alla morte di tisi a 44 anni.

Stanco di scrivere -per campare- raccontini giornalistici, disgustato dalla grettezza, invidia e avidità dei letterati Mosca, insofferente della dittatura letteraria di Tolstoj di cui pure era stato ospite apprezzato malgrado la diversa concezione del mondo: spiritualistica per il primo, realistica per lui, fece con medicina e letteratura ciò che fanno un marito o una moglie in tali conflitti: si trovano un amante o un’amante.

Sachalin 1Quell’amante si chiamava Sachalin.

Di sé scrive: sono giornalista perché ho scritto molto, ma non morirò giornalista. Se continuerò a scrivere, lo farò da lontano, nascosto in una nicchia, mi immergerò nella medicina; è la mia unica possibilità di salvezza, benché non abbia ancora fiducia in me come medico. A un amico che gli chiede per che diavolo va a Sachalin, risponde: voglio unicamente scrivere cento o duecento pagine e pagare in tal modo una minima parte del debito contratto nei confronti della medicina che io ho trattato, come sapete, da mascalzone, Sachalin è l’unico luogo in cui sia possibile studiare una colonizzazione compiuta da criminali, è un inammissibile luogo di sofferenze, l’intera Europa colta sa chi sono i responsabili: non i carcerieri, ma ognuno di noi.

Insofferente quindi del mondo letterario, nel 1890 partì, solo, per l’estremo est della Russia: 11.000 km e 8 mesi di viaggio, per un luogo poco conosciuto e ancor meno esplorato tanto che fino a pochi anni prima era considerato una penisola.

In quel mondo estremo, che godeva 190 giorni di neve e ghiaccio, la furia perenne del vento che scagliava le onde del Pacifico ad urlare tra le rocce, la tundra, immensi deserti silenziosi o fiumi scroscianti che per essere superati richiedevano lunghissimi aggiramenti, orsi, piccole isole dai fondali bassi dove le zattere si muovevano a stento, in un mondo dove “la natura appare illogica”, da vent’anni lo zar mandava gli oppositori politici e i più efferati delinquenti, uomini e donne.

L’obbiettivo era semplice: trasformare il detenuto in un animale e la prigione in un serraglio. Il carcerato doveva lavorare duramente per scontare la sua condanna, infine, passato quel tempo, diveniva colono, naturalmente senza tornare in Russia.

Anche solo il viaggio tra taiga, tundra, venti e pioggia costanti, innumerevoli ostacoli da aggirare, indurivano quanto di umano i carcerati potessero avere. Lo si legge in molti passi del libro: come quando Cechov raggiunge un traghetto di deportati che vengono a prendere nuovi deportati, già ammanettati, per trasferirli al luogo principe, la caserma con i suoi soldati, il boia, il fustigatore, un medico che esegue gli ordini militari.

Deportati a Sachalin

Deportati a Sachalin

Fra i deportati, gli inaffidabili erano legati tra loro con una catena di ferro e lungo una specie di strada Tra catene cigolanti e soldati stanchi, raggiungevano i luoghi dove spostare grandi tronchi o estrarre carbone. Se rompevano la disciplina, erano incatenati alla carriola e frustati. Il medico gli ascoltava il cuore, decideva quanti colpi con la frusta a tre punte poteva sopportare, infine il povero corpo ridotto a strisce di sangue era portato in infermeria. Il cibo era contraffatto: farina bollita con impasto di argilla setacciata, oppure una pappa semiliquida di grano stracotto e patate dove galleggiavano qua e là pezzi rossicci di carne e pesce deteriorati.

Poco meglio andava a chi finiva di scontare la propria pena: cominciava a costruirsi un’isba e lavorare la terra (cose ambedue quasi impossibili). Coperta dal gelo, la terra non produceva, “una mela non avrebbe saputo dove cadere”, il vento spazzava le isbe, la notte le cimici divoravano il “privilegiato” con eventuale moglie, distesi su un sacco. La necessità aveva formato piccoli insediamenti di uomini e donne.

Cechov raggiunge l’estremo “villaggio” a nord, dove vivono 13 persone, nove maschi e quattro femmine. Se a nord il paesaggio è il più desolato, a sud c’è il centro con la burocrazia, il capo colonia, i soldati, le camerate e il carcere degli incatenati alla carriola. All’epoca c’erano 191 disgraziati, di cui 124 femmine. Davanti al carcere, delle sentinelle facevano la guardia al nulla. Il boia, un sadico diventato tale a causa del suo mestiere, ha trovato un buco fetente dove costruirsi un’isba.

Il destino delle donne di Sachalin è ovvio, la prostituzione e la sifilide un po’ per tutti. Anche le donne che per amore o per senso religioso hanno seguito i mariti, finiscono in quella bolgia infernale, anche se alcune vivono insieme in qualche casa appartata. I bambini muoiono per la fame, le basse temperature, l’alimentazione, l’umidità che ne logora l’organismo e a poco a poco tutti i tessuti.

Nessuno ascolta i consigli del medico Cechov. Inevitabile quindi che lui scivoli nell’utopia: risanamento delle strutture carcerarie, costruzione di scuole, chiese, ospedali, assistenza alle famiglie dei deportati, creazione di posti di lavoro. Ma conclude: Non erano più uomini, ma animali induriti fino al midollo … Sachalin non è un posto dove essere umani.

E in quell’altro mondo– gli dice un vecchio–andranno all’inferno per i loro peccati.

Cechov nota che il primo riferimento umano che il condannato perde, è quello del tempo: non sa indicare quando è arrivato a Sachalin, non pensa al futuro, non ha voglia di parlare con lui. La loro lingua è la stessa, ma si muove su piani incompatibili. La situazione di questi disgraziati fa pensare inevitabilmente a Se questo è un uomo di Primo Levi, ma con una diversa cattiveria.

Come Levi, Cechov è un intellettuale con una formazione scientifica, ma non comune è l’approccio. In Sachalin, scritto sul posto, confluiscono, spesso senza ordine, sentimenti personali, osservazioni mediche e matematiche (i metri cubi d’aria per persona nelle isbe), l’interesse per le condizioni igienico-sanitarie della colonia, le analisi geografiche, i referti, i bollettini, i censimenti. Cechov stende tabelle, cerca, attraverso registri di varia provenienza i numeri e i destini dei deportati, vi trova dei matrimoni, un coacervo di incroci, l’alternanza dei capi colonia. Naturalmente la lettura di queste fonti gli era vietata, ma lui non merita attenzioni.

L’opera che ne esce ha un andamento tanto irregolare quanto affascinante cui bisogna abituarsi. L’eco di quell’inferno si risente in La corsia n.6, racconto angoscioso ambientato in un ospedale psichiatrico.

Leggendolo, Lenin disse di essere rimasto raccapricciato; non sono potuto restare nella mia stanza; mi sono alzato e sono uscito. Avevo proprio la sensazione di essere chiuso nel reparto n.6.

Pubblicato a puntate, l’Isola di Sachalin, non riuscì a scalfire la società russa, ma questo era il destino della poetica di Cechov, destino chiaro anche nei suoi drammi. L’uomo è un perdente, ha aspirazioni soffocate da rinunce, porta con sé una rassegnazione dolorosa e inevitabile. Vive di ciò che ha, non di ciò che è.

di Viola Allegri

Condividi: Email this to someoneShare on FacebookTweet about this on TwitterShare on Google+Pin on Pinterest