La santità di Don Giuseppe Rossi, martire per la sua gente
novembre 15, 2024 in Approfondimenti da Pino Mongiello
Don Giuseppe Rossi, parroco di Castiglione d’Ossola, è stato un prete che forse avrebbe trascorso la sua vita con semplicità, in umiltà e obbedienza al suo vescovo, fermamente convinto della sua vocazione, dedito con amore alla cura delle anime a lui affidate e non avrebbe raggiunto la notorietà che oggi lo circonda se non fosse stato barbaramente ucciso dai fascisti il 26 febbraio 1945. Era nato a Varallo Pombia (NO) il 3 novembre 1912 ed era stato ordinato presbitero il 29 giugno 1937. La sua biografia è narrata in un volumetto di 94 pagine da Marco Perotti per Interlinea, Novara, 2024, € 15, con essenzialità e asciuttezza, ed anche con rigore informativo. La figura di quel prete ci viene restituita a tutto tondo, lontana da qualsiasi intento agiografico e quindi integra nella sua verità storica. Questi i fatti, tutti avvenuti in una sola giornata, due mesi prima della fine della guerra: la mattina del 26 febbraio ’45 un gruppo di partigiani della Val d’Ossola compie un attentato contro un camion carico di fascisti intenzionati a rastrellare la zona nei pressi di Castiglione, il paese dove è parroco don Rossi. Restano uccisi due repubblichini e quindici rimangono feriti. Poco prima il campanile aveva scoccato nove rintocchi, quelli dell’ora: gli stessi che i fascisti sopravvissuti prendono a pretesto per dichiarare che si era trattato di un messaggio sonoro da parte del prete per avvisare i partigiani. Inevitabile e immediata la rappresaglia. Nelle frazioni limitrofe vengono incendiate diverse case, alcune vengono utilizzate per tenervi prigionieri uomini e donne catturati. Viene prelevato dalla sua canonica anche don Giuseppe il quale avrebbe potuto fuggire sui monti come altri del paese. Egli invece decide di restare con la sua gente: prega e dà conforto, e assicura tutti che si sarebbe sacrificato senza esitazione per salvare la loro vita. Interrogato dai militi che vogliono accertarne la complicità coi partigiani, viene poi rilasciato perché considerato non colpevole. Ma tra i repubblichini qualcuno non accetta un simile verdetto. Don Giuseppe viene quindi prelevato una seconda volta da casa sua e, senza alcuna prova di colpevolezza, viene barbaramente ucciso e seppellito in una fossa che era stato costretto a scavare con le sue mani. La gente lo piange, lo ricorda come un uomo integro, generoso. Don Giuseppe è quel prete che sull’immaginetta-ricordo della sua ordinazione aveva scritto, citando San Paolo: “Darò tutto quello che ho, anzi darò tutto me stesso per le vostre anime” (2 Cor. 12, 15).
A questo prete che amava la semplicità e il nascondimento, e non aveva fatto alcuna scelta di parte se non quella di stare con i poveri e con gli ultimi, una cosa era chiara, tanto da scriverla nel suo diario: “Chiunque bussa alla mia porta io lo aiuto…per me sono tutti figli di Dio”. La sua morte suscita sconforto e indignazione tra la gente della valle. Fin da subito il suo sacrificio viene associato a quello dei martiri della Resistenza così che nel 1955 gli verrà assegnata la medaglia d’oro alla memoria. Ben più tardivamente, invece, si mobiliterà l’azione dei preti e dei fedeli dell’Ossola i quali, peraltro, vedono in lui l’eroe della carità. Le prime pressioni perché la morte di don Giuseppe venga riconosciuta come un atto di santità si manifestano nel 1985. La Chiesa procede con cautela nell’ufficializzare una simile condizione ma sono i suoi compagni di seminario a sostenere la necessità che si apra senza indugi un processo canonico al riguardo. Sarà un processo lento, puntiglioso, che mirerà a scandagliare ogni piega della vita di quel prete esile ma tenace a partire dal suo contesto familiare, dai primi anni della sua fanciullezza alla giovinezza, alla formazione in seminario comprendente i rapporti con i superiori, i compagni, gli amici. Con il Giubileo del 2000 tutti i documenti raccolti su di lui vengono inviati a Roma presso la Congregazione per la causa dei santi. La questione nodale sta nel riconoscere se, nel caso di don Giuseppe, si possa parlare davvero di martirio il quale, per essere tale, richiede che chi muore lo faccia a difesa della fede, e chi provoca la morte lo faccia “per odium fidei”. Potremmo portare ad esempio, per un confronto, la canonizzazione di P. Massimiliano Kolbe che, nel campo di sterminio di Auschwitz, salvò la vita a un uomo offrendo all’aguzzino la sua e, più recentemente, quella di don Pino Puglisi, parroco del quartiere palermitano di Brancaccio, ucciso dalla mafia.
Nel maggio 2024 don Giuseppe Rossi è stato dichiarato beato dalla Chiesa cattolica.
di Pino Mongiello