Italiani, gente cattiva fra negazionismo e rimozione

settembre 11, 2024 in Recensioni da Paolo Merini

kersevan-lager-italianai-copertinaA 15 anni di distanza l’ed. Nutrimenti pubblica, debitamente rivisto, il libro fondamentale Lager italiani. Pulizia etnica e campi di concentramento fascisti per civili italiani jugoslavi 1941-1943, di Alessandra Kersevan:

Dalla lettera scritta da una donna alla famiglia da un campo di concentramento in Croazia:

Siamo nelle baracche dove moriamo dal freddo e dalla fame. Vi scongiuro di mandarmi qualche cosa da mangiare. Malenka (la figlia) è morta in Arbe, era soltanto pelle e ossa, il 31-12 è morto pure mio padre con altri 12 uomini. Liberateci da questo campo, dal Golgota della nostra vita.

Un’altra lettera: Se avete, mandateci un po’ di pane. Sapeste quanto siamo ansiosi di qualche cibo secco! Se tu ci potessi vedere piangeresti a trovarci in questo stato. Soffriamo il freddo e la fame e particolarmente i pidocchi.

Non siamo nei Lager della Germania nazista, siamo in Italia dopo l’annessione del Friuli e della Slovenia con la Prima guerra mondiale. Erano regioni multietniche, vi vivevano popoli diversi: Sloveni, Croati, zingari, montenegrini e uomini che avevano combattuto nell’esercito austriaco, tutti chiamati dal nostro governo “allogeni” e di cui, dopo la guerra “Il giornale di Udine” scriveva: Questi slavi bisogna eliminarli. Altro giornale scriveva: Sono quattro o cinque migliaia di contadini disseminati nell’Alto Friuli, che parlano lo slavo come io parlerei l’ottentotto, cioè un gergo barbaro di una lingua barbara che farebbe strabiliare un professore di Pietroburgo Yugoslavia manifesto

Lettere mai consegnate, frasi coperte dalla censura, arrivate a noi perché la burocrazia censoria prevedeva che, prima di essere coperte, le frasi fossero inviate in più copie a vari uffici: Prefettura, Ministero dell’Interno, Servizio informazioni militari.

Queste e molte altre, soprattutto di donne, furono scritte nei capi di concentramento di Gonar e di Arbe, l’odierna isola di Rab in Croazia, dove il generale Roatta aveva costruito un campo di concentramento per circa 20.000 internati. Lettere particolari anche perché scritte sul posto e al momento, non memorie di sopravvissuti.

La deportazione degli Slavi (così generalmente chiamati) considerati inferiori era discussa già negli anni 1920-30, peggiorata con le leggi razziali del 1938 e ancor più dopo la conquista tedesca della Jugoslavia, quando il nostro governo passò dalla “separazione razziale” alla “bonifica nazionale” per arrivare alla snazionalizzazione di quelle popolazioni. Si voleva l’italianizzazione del confine orientale, giacché fino a quando vi saranno gli slavi su questo confine, si avrà ragione di temere disordini e perturbazioni

(…) con gli slavi la clemenza è debolezza.

L’orrore proseguì fino al 25 aprile 1945 anche se il fascismo era stato abbattuto l’8 settembre 1943.

Yugoslavia plotone d'esecuzioneA Pohum, presso Fiume il 13 luglio 1942 le camicie nere fucilarono 108 uomini, il più giovane aveva 14 anni, come rappresaglia per l’uccisione di due maestri italiani. Nel campo di sterminio di Arbe, dall’estate 1942 al settembre 1943 morirono 1500 persone, secondo dati ufficiali, circa 4.500 secondo il vescovo dell’epoca che raccolse le testimonianze di coloro che collaborarono alla sepoltura dei morti. Il campo fu costruito in fretta tra pochi soldi e disorganizzazione amministrativa, costituito tende, praticamente senza cucina, con servizi igienici insufficienti, affollato da uomini donne e bambini, immediatamente riempito dai continui rastrellamenti e internamenti di famiglie che forse avevano un parente partigiano o fuggito di casa. Intanto si aprirono altri campi in provincia di Padova e Treviso. Il generale Roatta sintetizzò il comportamento che i soldati dovevano tenere: Il trattamento non deve essere dente per dente, ma testa per dente.

Una mostra con questo titolo ad Orvieto fu duramente criticata dall’attuale presedente del Consiglio. Era il razzismo italiano e dei suoi alleati guidati da Ante Pavelic. La deportazione era giustificata col pretesto di togliere ai partigiani le basi logistiche ricattando la popolazione, distruggendo i paesi di provenienza, facendo tagliare boschi, distruggere il raccolto e disperdendo gli animali. Altra misura fu di deportare gli “allogeni” in campi di concentramento (detti campi di lavoro) in lontane province (gli uomini di solito a Cairo Montenotte, in provincia di Savona, le donne ad Alatri in provincia di Frosinone) e, scrisse Mussolini “di dare le proprietà dei ribelli alle famiglie dei nostri caduti”.

Si volevano trasferire dalla Slovenia circa 30.000 persone, cioè il 10% della popolazione nei seguenti modi: 1. Distruggendola, 2. Trasferendola, 3. Eliminando gli elementi contrari con una politica dura. Lo sgombero non ci fu perché “provvedimento vasto e complicato che esula dalla competenza militare”, scrisse Roatta. Ma nemmeno era favorevole il Ministero dell’Interno che rifiutava di internare 30.000 sloveni essendo saturi tutti i campi di concentramento anche nei territori occupati e in Libia. Si temeva inoltre il pericolo di contatto tra italiani e internati.

 

Un internato yugoslavo

Un internato yugoslavo

I militari nell’inverno 1942-43 risolsero il problema lasciando morire gli internati di fame, freddo, tifo petecchiale, dissenteria e altre malattie mentre si prevedeva l’apertura la “più rapida possibile” di nuovi campi di concentramento sempre costituiti da tende. Un appunto per il duce nell’estate 1942 parla di 52.800 internati.

Un nuovo campo fu aperto nell’isola di Kampor senza baracche, latrine, cucina, infermeria, c’erano solo i reticolati e le torrette di guardia. Agli internati si diede l’ordine di scavare buche per le latrine che restavano aperte (le donne usavano frasche per coprirsi). Di notte, quando tutto era buio per timore dei bombardamenti il campo era pieno di luce per il controllo. Il cibo, perlopiù una specie di brodo con un pezzetto di pane per i bambini, era distribuito in un bidone di benzina tagliato a metà. Pio XII, tenacemente anticomunista, intervenne dopo il 25 luglio 1943 chiedendo al governo Badoglio “il miglioramento delle condizioni di vita nei campi per i circa 100.000 jugoslavi internati in Italia”, senza ottenere nessun risultato.

Si trattò di crimini superiori a quelli d’Etiopia ed Eritrea, ma su quelli slavi è calato negazionismo e rimozione giustificati col solito slogan: “italiani brava gente”. Come scrisse Angelo del Boca: fu una rimozione con un potente effetto assolutorio che si mostrò anche quando, a fine guerra, gli jugoslavi chiesero la consegna dei criminali italiani e la Repubblica antifascista non ne consegnò nessuno. Al contrario in Italia ci fu una formidabile propaganda sul tema delle foibe sostenuto anche da fotografie falsificate.

Solo nel 2020 i tempi “diventarono maturi” e il presidente Mattarella incontrò il suo omologo sloveno tenendolo per mano, l’anno seguente quello croato e due anni dopo quello del Montenegro. Nell’occasione Mattarella parlò di riconciliazione di ambedue le parti, rivolgendosi a governanti di stati ormai non più jugoslavi, lieti quindi di accettare la retorica della democrazia.

di Paolo Merini

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