Ti auguro un po’ di sole che sembri di primavera
gennaio 16, 2024 in Recensioni da Roberta Basche
“Oggi c’è in me lo stesso grigio ch’è nel cielo. Qualcosa di uniforme, di placido, d’intollerabile” scrive Anna Maria Ortese da Sant’Agata sui due Golfi nel febbraio del 1941 all’amica Marta Maria Pezzoli, chiamata affettuosamente Mattia.
Vera gioia è vestita di dolore, pubblicato da Adelphi con la curatela di Monica Farnetti e una nota biografica di Stefano Pezzoli è la raccolta di lettere scritte da Ortese a Mattia.
L’amica di qualche anno più giovane è rimasta affascinata dai racconti di Angelici dolori, la prima raccolta pubblicata dalla Ortese.
In questa corrispondenza (intercorsa tra il 1940 e il 1944) ricorrono l’inquietudine e le preoccupazioni della scrittrice, l’ansia e l’incertezza del futuro, le paure e il senso di solitudine, le insoddisfazioni e i dolori della vita. Ma le lettere sono anche illuminate dalla gioia di confrontarsi con un’amica, con la quale condividere la passione per la lettura e la scrittura, e dagli incoraggiamenti a credere nel proprio lavoro.
Entrambe amano Katherine Mansfield; il solo guardare una fotografia della scrittrice neozelandese trasforma felicemente una giornata della Ortese che altrimenti sarebbe stata pessima, come scrive lei stessa all’amica.
“Mattia, com’è incantevole questa donna. Ti prego, guarda il suo ritratto e poi me lo dirai. Negli occhi pare che vi sia tutta la luce più candida e più misteriosa del mondo, anzi non è neppure uno sguardo di questa terra (…). Quel volto, perché io mi son fermata a rileggere il libro, mi ha fatto un curioso bene”.
Con Mattia si scusa quasi in ogni lettera, per “avere detto certe cose sgradevoli e inutili” oppure le scrive: “mi sembra di esserti di peso, perché è un secolo che vado narrandoti mie stanchezze e disperazioni: Scusami sempre, Mattia”.
Alterna momenti di scoraggiamento ad altri di gioia.
“Sto vivendo quassù, sul monte alle spalle di Sorrento, una vita di niente, che non so quando finirà. Non ho più voglia di scrivere o leggere, mi sembra tempo gettato. Meglio stare nella sala vicina al fuoco, guardando le faville, e nulla o poco pensando”. Scrive invece in un’altra lettera “Lavorare mi consola tanto, direi rallegra”.
E incoraggia l’amica a leggere e a scrivere “Tu hai delle idee che rischiarano quelle altrui(..) solo lavorando, dolorando, sbagliando si viene a conoscere il proprio volto. Anche questo me l’hai detto tu (…) non scoraggiarti, tenta, consigliati con amici intelligenti, pubblica, coraggiosamente: fa’ che quanto hai in te di bello e buono s’affini e amorosamente si posi sulla mensa comune”.
Ci sono molto affetto e molta dolcezza da parte della Ortese, come quando le scrive Ti auguro un po’ di sole che sembri di primavera. Purtroppo mancano le lettere di Mattia, probabilmente perdute.
La curatrice, riguardo l’importanza delle amicizie femminili per la scrittrice, cita altre due corrispondenze, attualmente inedite; l’una con Paola Masino, l’altra con Adriana Capocci Belmonte. E riguardo la lettura degli epistolari scrive “chi legge gode del difficile privilegio di essere ammesso a un’intimità che non è la sua, allo stesso tempo dubitando della liceità del proprio agire e apprezzando l’immenso profitto ricavato”.
Quindi, quando ci è possibile leggiamo gli epistolari, mantenendo uno sguardo delicato e affettuoso e senza provare troppi sensi di colpa per aver violato quell’intimità.
di Roberta Basché