Follia, angoscia e allucinazione sono il mondo di Manganelli
marzo 17, 2022 in Approfondimenti, Recensioni da Viola Allegri
A due anni di distanza da Concupiscenza libraria (si veda la recensione di “G9” digitando manganelli nella finestra della home page) l’editore Adelphi propone Altre concupiscenze nel piano di pubblicare l’opera intera di Manganelli.
Il libro, curato come il precedente da Salvatore Silvano Nigro, porta nelle ultime sessanta pagine, a seguito delle recensioni di Manganelli, altri tre capitoli: Riletture, Miniature critiche, Appendice.
Proprio il lavoro di Nigro, che sistema una dopo l’altra le recensioni, scritte anche a distanza di tempo, mi induce a una valutazione più ampia rispetto al libro precedente.
Manganelli scrive: Quando penso alla letteratura nel suo insieme mi vedo in una situazione di Mille e una notte in cui continuamente entro ed esco da uno scrittore all’altro, da un libro all’altro, attraverso aditi, porticine, passaggi che si cancellano appena percorsi in una situazione fantasiosa ed irregolare. Ma è proprio l’altro libro di novelle – i due più belli al mondo – il Decameron (corposo e carnoso, allegria sfacciata e furba, badiale tacchino) che gli fa dire il contrario: il brulicare vitale e simbolico di questo libro nel quale per cento porte si entra e nessuna se ne esce, e anzi ancora ci sto dentro, e intenzione di venirne fuori, io non ne ho davvero, è quindi il Decameron a chiudere ogni fuga.
Al vagabondare per libri, è certo, non si sfugge.
Manganelli ripete: “Io sono un recensore” e dà varie definizioni e interpretazioni del mestiere allontanandosi subito, ovviamente, dai critici dei quotidiani che fanno di quel lavoro un sassoso letto di torrente nel quale, d’un tratto si precipita un’imprevista corrente: parole, aggettivi, soprattutto aggettivi, ma anche sostantivi, un po’ meno avverbi, invadono il letto sassoso, e nascono le recensioni. Nigro conferma: Manganelli era un recensore geniale e ci teneva a non cucirsi dentro l’uniforme di quella che, con secca ironia, chiamava l’impolverata stirpe dei recensori.
Definizione, quella di recensore, io credo, che gli sta stretta, che sia una delle sue abituali menzogne.
Infatti a Manganelli non si può credere; la sua erudizione, agilità culturale e malizia professionale lo fanno astuto e sornione, ambiguo, ironico e autoironico. Soprattutto non gli si può credere quando parla di sè.
Non racconta la trama di un libro per distruggere nel lettore la voglia di leggerlo, nè farne una vivisezione alla De Sanctis. Nei libri ci naviga, passa da un autore ad altra opera, ritorna alle sue orme e rilancia, a volte bluffa come a poker, a volte lancia sassi che possono volare sull’acqua come rotolare su una pagina. Con lui nessuno è al sicuro: Carlo Levi ha “una cantilena che affabula, non l’arruffata fantasia ma un languore affettuoso”, la sua prosa “è gentilmente banale”, lo stato d’animo di Levi è quello con cui si fa cattiva letteratura. Cristo si è fermato a Eboli non fa eccezione. Ma, per essere cattiva letteratura, è eccezionalmente competente”.
Ferito a morte è Luigi Capuana: “va espulso dal territorio nazionale, la sua pagina è vuota, anche se sopra ci ha messo delle parole”. O Edgar Lee Master, un frustrato che ha bisogno di una partita di epitaffi completi di defunto. Forse aveva in animo di fondare una necropoli, simile alle taciturne, analfabete necropoli dei poveri. L’Antologia di Spoon River trabocca di messaggi, di perorazioni, di suppliche e insolenze; un luogo pettegolo e pedagogico, un gigantesco tè del giorno del Giudizio.
Naturalmente ci sono autori che ama con riluttanza, a cui infligge con dolcezza il suo acume, come Savinio che In ascolto il tuo cuore città, fa una sua dichiarazione d’amore a Milano. Manganelli nota che non c’è invenzione affettiva, supponiamo per Laura e Beatrice, invenzione che include una sorta di mostro, tra meraviglioso ed efferato, che è l’essere umano (affermazioni che già preoccupano gli innamorati), “la terra di Savinio è una sfera liscia come l’avorio” ma non è un Ulisside, è un uomo che va a spasso per i mari, accoccolato tra i marosi. Se l’uomo della fine è esentato dalla tragedia delle domande definitive, se gli è consentito un riso metafisico, gli converrà una coreografia metafisica, quella appunto che disegna la mano ilare e inquieta di Alberto Savinio.
Due sono le sue analisi più suggestive – assolutamente imperdibili – quella di Gionatha Swift, I viaggi di Gulliver, libro per bambini, debitamente per loro censurato.
Libro terribile, scrive Manganelli – in cui Swift scopre e sprofonda nella follia umana non tanto nella sproporzione tra l’immensamente piccolo e il gigante, che pure non sono esperienze da poco – aggiungo io – ma nel confronto col mondo dei cavalli, tranquilli, sereni, razionali, equilibrati, forse noiosi. Sotto di loro stanno gli yahoo, viziosi e corrotti, da eliminare. In questo secondo doppio, non più fisico, ma sociale e spirituale, Gulliver si scopre simile agli yahoo e si perde. La sua mente s’intorbida, rifiuta i vestiti puliti che gli offre il capitano della nave, quando scende a terra è un fantasma, il suo disgusto per l’uomo è irreversibile.
Lo si constata nei libri successivi: Una modesta proposta in cui predica il cannibalismo: pascersi dei bambini irlandesi, troppo numerosi: all’età di un anno, grassottelli, fatti al forno, e il menu si dilata. Nella Descrizione di un acquazzone, quando la città affoga nel disgusto carnale di un essere umano che è solo una finzione letteraria: l’uomo è repugnante, i quartieri di Londra sono una cloaca, vi passano le budella della città, frammenti di feci, spazzatura di macellerie, cuccioli annegati, aringhe fetide e gatti morti. Nella Descrizione Swift guarda le donne con ferocia: lo sterco, il tanfo delle vesti, la complicità trista col corpo.
L’attacco alle donne- aggiungo – si era già notato quando le gigantesse lo titillavano o l’appendevano ai capezzoli che lui vedeva pieni di macchie e peli a loro invisibili, oltre che di corpo fetente.
Mi torna in mente l’ultimo libro del Boccaccio senile, Il Corbaccio, summa del disprezzo delle donne, anche qui accusate soprattutto di lussuria (come se la lussuria non piacesse anche agli uomini).
L’altra analisi spetta a Dickens, di cui è “un devoto maniacale” si sofferma su America, “forse un impasto di romanzi, mostruosamente concotti e sbriciolati” (…) puro Dickens: ilare, sinistro, maniacale, felice, innamorato e inorridito dal mondo, uomo della follia. Il romanzo è divertente e indicibilmente angoscioso. In esso c’è un odio ipnotico, lo sgomento che non ci lascia scampo” e che s’incarna in una figura di terrore. Basta leggere le prime pagine del capitolo 16 di Martin Chuzztlewit: lo strillone che annuncia il quotidiano “La fogna” di New York : “questa fogna ideale era da sempre il ricettacolo delle fantasie più intense del romanziere? “
Nella città lo attirano in modo privilegiato le prigioni, i manicomi, gli ospizi dei poveri e quelli dei menomati”. Dickens divertente e mostruoso a un tempo (…) “quale dolce ilarità, quali abissi di sensi di colpa! Un’oscura consanguineità lo lega agli uomini del furto, della frode, dello sfregio, della morte: i delinquenti. Questi dementi dalla mente lucida, creatori e destinatari del male”. La descrizione della prigione di Filadelfia è di un orrore inverosimile. Dickens è “inorridito e affascinato dalla semplice ferocia di quella pena: e ne parla come può fare chi paventa e oscuramente brama questo lento, minuto, disfacimento dell’anima e della mente.”: un cappuccio nero viene infilato sul capo di ogni prigioniero che entra in questo malinconico edificio, “è condotto nella cella da cui non uscirà fino allo scadere del termine prefisso. Egli non riceve mai notizie né della moglie né dei figli, di casa o degli amici “. Altrove percorre le scale dei sudici angiporti, visita il cortile della forca, il cimitero di New York. La vita americana è un incubo e insieme qualcosa di grottesco, “una diversa planimetria dell’inferno. Niente è più affascinante e divertente del male”.
Mi chiedo: perché Manganelli è così affascinato dalla ricerca e dalla scoperta in ogni scrittore della contraddizione: la demenza, il cupo del mondo, l’angoscia di Ceronetti, l’allucinazione di Dossi, la follia di Strindberg. In particolare, chi legge il suo racconto lungo Il giudice impazzito Daniel Paul Schreber, presidente della Corte d’Appello di Dresda che aveva scritto Memorie di un malato di nervi (1900-1902), ed Adelphi, entra in un labirinto schizofrenico dove pare che Manganelli si specchi. Per questo la recensione gli sta stretta, una semplificazione per chi scava come una talpa e vola come un gabbiano.
di Viola Allegri