Non basta a Cassandra avere ragione. La previsione di un economista a Palazzo Chigi
giugno 16, 2020 in Approfondimenti, Recensioni da Mario Baldoli
Nella condizione virale in cui si trova il mondo, mentre tutti parlano del futuro, ecco che ne parlo anch’io. Ne parlo attraverso le teorie del più grande economista del Novecento, John Maynard Keynes e di chi oggi lo segue Joseph Stiglitz e Paul Krugman, in conflitto con le teorie affermatesi negli ultimi decenni del secolo, la “scuola di Chicago” con Milton Friedman e George Stigler
Tutti e quattro premi Nobel, perché un colpo va al cerchio e l’altro alla botte.
Le illusioni sono molte, ma poche le vie d’uscita: la più probabile, vaccino o no, è che tutto torni come prima con in più la solitudine del lavoro da casa: liberismo sfrenato, ricchi sempre più ricchi, mutui e azioni truffa, strada dritta alla catastrofe economica come nel 2008. I ricchi, per salvarsi dai poveri, già hanno circondato le loro ville e aziende da forze armate, i robot e l’Intelligenza artificiale trasformeranno in rivolte episodiche e violente quanto rimane di una classe di precari. Tornerà il laissez faire, le “mani libere” richieste dai “padroni”, almeno fin quando hanno bisogno dello Stato.
Altra strada la troviamo in John Maynard Keynes, che vedeva lontano, quindi non fu mai seguito e quando i governi lo prendevano sul serio, ciò avveniva anni dopo e in emergenze diverse.
Della vita di Cassandra che prima della guerra di Troia ebbe solo un amore “opaco”, come oggi usa dire, si sa solo che prevedeva disgrazie, di Keynes in genere si dice soprattutto che sosteneva l’intervento dello Stato in economia, e che fu sempre sconfitto.
Di lui sappiamo molto, e ora è pubblicato un libro che ne presenta insieme la vita e le opere. Un lavoro del genere è sempre di difficile equilibrio soprattutto nei riguardi di un uomo che ebbe una vita vulcanica ricca degli interessi più vari: matematico, collezionista d’arte, di libri, in particolare dei manoscritti di Newton, ma anche di alchimia, appassionato di Freud e Einstein che conobbe, amico di Wittengstein e di Russell, direttore della prestigiosa rivista “Economic Journal”, giornalista molto attivo, polemico e sarcastico al punto da inimicarsi quasi tutti: economisti, banchieri, politici (ma che ebbe incarichi importanti nel governo inglese quando c’era bisogno di lui), organizzatore teatrale, componente del circolo di Bloomsbury dove l’omosessualità era virtù quasi obbligata.
Ne scrive l’economista francese Alain Minc, in Diavolo di un Keynes, Utet editore, con un’acribia che lo segue anche nei vari epistolari che ne rivelano il pessimismo e l’aggressività, in un lavoro che non fa sconti a Keynes mostrando spesso le velleità delle sue vedute.
Chi legge si accorgerà che tutto quanto avvenne nel suo tempo è ancora oggi incredibilmente attuale.
Keynes, educato a Eton e Cambridge, matematico affascinato dall’economia, fece parte della delegazione economica inglese al Congresso di Parigi alla fine della Prima guerra mondiale come consigliere del Ministero del Tesoro. Dalla delegazione se ne andò scrivendo senza diplomazia a Lloyd George: “Caro signor Primo ministro, vi informo che da sabato sarò scomparso dalla scena della tragedia”. La tragedia era il trattato di Versailles che i vincitori imponevano ai vinti (Austria e Germania): restituzioni economiche impossibili e meschine: oltre al pagamento dei debiti di guerra da restituire con il ferro e il carbone delle miniere tedesche, persino il pagamento di una pensione ai militari e alle vedove di guerra, mentre l’Austria da impero si riduceva a piccolo Stato. Keynes aveva ottenuto qualche mitigazione delle esigenze dei vincitori, ma era stato respinto il suo grandioso piano di ricostruzione dell’Europa, un piano che doveva partire dall’annullamento dei debiti di guerra. Ma i vincitori volevano vendetta. Lui scrisse che dopo Versailles sarebbe esploso il nazionalismo in Germania, un Paese che oltretutto non era stato nemmeno occupato. Infatti ci volle una seconda guerra mondiale per capire che aveva ragione, fu quando gli Usa lanciarono il Piano Marshall per la salvezza di mezza Europa dal comunismo, finchè nel 1953 decisero di cancellare i debiti di guerra della Germania dal 1919 al 1945.
Keynes, spirito brillante, dotato di grandi capacità di comunicazione in pubblico come sui giornali, appena tornato a Londra scrisse Le conseguenze economiche della pace, un libro che ebbe un immenso successo, sostenuto anche dai suoi violenti scritti giornalistici con i ritratti dei vincitori: Clemenceau: vecchio, silenzioso, l’anima secca e vuota di speranze (…) non capiva che eravamo alla soglia di una nuova era. Lloyd George: radicato nel nulla più totale, un vampiro e un medium allo stesso tempo. Woodrow Wilson: mancava di cultura (…) era un don Chisciotte cieco e sordo, e fargli notare che il trattato rappresentava la sconfitta delle sue dichiarazioni significava toccare il vivo di un complesso freudiano.
Fu da subito nemico del liberismo, del laissez-faire, secondo cui bastava attendere nel tempo l’avvento della “mano invisibile del mercato” cui rispondeva con sarcasmo che “nel lungo periodo siamo tutti morti”.
Scrisse alla madre dopo Versailles: Vedo solo un prolungamento della guerra, significherà la scomparsa dell’ordine sociale conosciuto finora. Con alcuni rimpianti credo di non esserne desolato. L’abolizione dei ricchi rappresenterà più o meno un sollievo e se lo saranno meritato. Mi sgomenta molto di più la prospettiva di un impoverimento generale e questo Paese sarà ipotecato dall’America. Era il risultato di una classe dirigente fatta di “incompetenti folli e perversi”.
Infatti dopo Versailles, l’Inghilterra si trovò schiacciata fra i debiti con l’America e i crediti inesigibili dalla Francia e dai Paesi vinti.
Torno, come il libro, alla sua vita. Abbandonata l’omosessualità, si sposò con la ballerina russa Lidja Lopuchova per la quale istituì una compagnia occupandosi persino dei sedili e del costo dei biglietti. Fu un matrimonio felice, mai accettato dai Bloomsbury, in particolare da Virginia Woolf.
Fra conferenze e articoli su riviste di economia come su giornali popolari, sempre denso di disprezzo verso i suoi numerosi avversari, scrisse due opere: il Trattato sulla probabilità (1920) e il Trattato sulla riforma monetaria (1923) che confermano la necessità di agire sulla moneta, uno dei temi al centro della sua teoria.
Fu lo shock del 1929 (non l’aveva previsto e vi aveva perso i suoi capitali) a rilanciarlo politicamente. Entrò nelle Commissioni Macmillan dove sostenne che la crisi era dovuta all’inflazione dei profitti e chiese, nello stupore generale, un programma massiccio di spese pubbliche per eliminare la disoccupazione: riduzione di tutti i redditi, instaurazione del reddito minimo, erezione di diritti doganali temporanei. L’investimento dello Stato nelle opere pubbliche andava finanziato attraverso il prestito senza aumentare il debito pubblico. Naturalmente si trovò contro la lobby delle banche e, forse di conseguenza, il Tesoro che temeva troppe spese di bilancio.
Keynes – nota Minc – nemmeno questa volta teneva conto delle resistenze del sistema politico. Io credo che questo fosse un pregio, la lungimiranza non è pragmatica. Davanti alla ormai lunga crisi economica inglese, deflazione e disoccupazione crescente, si battè per togliere il rapporto fisso della sterlina con l’oro il Gold exchange Standard, quell’oro era “la barbara reliquia” (a cui solo il dollaro restava attaccato) che richiedeva all’Inghilterra sforzi sempre maggiori e maggiore povertà. Keynes aveva ragione e infine nel 1931 l’Inghilterra abbandonò il Gold standard.
Di fronte alle molte opposizioni aveva capito che le sue idee avevano bisogno di fondamenti concettuali e scrisse il Trattato sulla moneta (1930) e la Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta (1936) l’opera che doveva farlo entrare nel mondo dei “classici” Malthus, Smith, Ricardo, Marx.
Dato che gli inglesi dovevano trattare ogni volta con gli Stati Uniti, si trovò ad andare sette volte in America. Ebbe sempre un cattivo rapporto (ricambiato) con il governo degli Stati Uniti. Tornato dal suo primo viaggio nel 1917, loro lo trovarono “ruvido, dogmatico e sgarbato”. Lui scrive a Duncan Grant: “La sola cosa simpatica e originale in America sono i neri che sono attraenti”.
In Usa, tra conferenze che sbalordivano per la cultura, la precisione dei termini, la forza ideale e il vigore espressivo, incontrò il presidente Hoover nel momento in cui questi dichiarava la moratoria dei debiti di guerra per la quale lui si era battuto un decennio prima.
Ci vorranno l’elezione di Roosevelt e il New Deal per capire che aveva ragione e quando nel 1937 Roosevelt tolse gli interventi statali per rientrare nel laissez-faire, la crisi ritornò potente come prima.
Allo scoppio della Seconda guerra mondiale Keynes chiese l’intervento economico Usa e, come a Versailles, lanciò un grande progetto: mettere in comune l’oro e la valuta degli Alleati, creare un’unione monetaria internazionale con cambi controllati da una Banca centrale che doveva impedire le svalutazioni competitive e controllare crediti e debiti attraverso una moneta unica, il “bancor”.
Gli Usa capirono solo che Keynes voleva fermare il dominio del dollaro e riproposero il libero scambio pretendendo anche un “test di buona condotta” per i Paesi debitori. Keynes attaccò gli Usa alla sua maniera: li accusò di aver cercato di far fallire l’Inghilterra durante la guerra per lasciarla insolvente ora e ripropose di nuovo l’annullamento dei debiti di guerra.
Messi sotto accusa, gli Usa proposero un incontro a Bretton Woods che servì solo a un nuovo scontro sulla politica dei cambi. Keynes e il governo inglese furono sconfitti su tutta la linea. Truman, il nuovo presidente, chiese agli Inglesi di pagare tutto e subito i debiti di guerra e impose che gli Usa presiedessero la Banca Mondiale. Keynes che in quell’occasione ebbe un primo attacco di cuore, minacciò di abbandonare la conferenza: Ne venne una mediazione in perdita per gli inglesi: un sistema compatibile col libero scambio e un rifinanziamento dell’Inghilterra a basso tasso di interesse. Il dollaro manteneva il suo cambio fisso con l’oro, le altre monete avevano un sistema di cambi flessibili.
Keynes scrisse ad un amico: Abbiamo troppo bisogno delle loro bistecche (…) gli americani non hanno la minima idea di come porre queste istituzioni in una prospettiva di livello internazionale. Sono totalmente determinati a imporre le loro condizioni senza considerazione alcuna per tutto il resto di noi. Se conoscessero la musica, passi, il fatto è che sfortunatamente non la conoscono. Emergeva come sempre il suo disprezzo per l’ignoranza americana. Stremato da una vita consumata senza risparmio, dopo l’ultima sconfitta mori a 62 anni nel 1946.
Nel 1971 il presidente Usa Richard Nixon per rimediare ai debiti della lunga guerra in Vietnam abbandonò la convertibilità del dollaro in oro (la “barbara reliquia” di Keynes) lasciando che le monete fluttuassero liberamente, ad eccezione dell’Europa che puntò su un sistema di unità monetarie, il Serpente monetario con riferimento Ecu (1972), poi un sistema di cambi flessibili (1978), infine l‘euro (1999-2002).
Le manovre economiche ebbero scarso successo per il raddoppio del prezzo del petrolio in seguito alla guerra israelo-palestinese e la consueta crisi di sovrapproduzione. Ciò provocò inflazione, svalutazioni, assenza di crescita, nacque il termine “stagflazione”, stagnazione e perdita del potere d’acquisto della moneta.
Cosa succederà oggi l’abbiamo chiesto a un economista consulente a Palazzo Chigi e abbiamo avuto una risposta tetra:
C’è la possibilità di un’inflazione anomala causata da un aumento dei costi di produzione (costi fissi+costi variabili).
Se si verificasse un’ulteriore contrazione della domanda si produrrebbero un numero minore di prodotti e servizi con un aumento del costo medio che farebbe crescere i prezzi e i servizi offerti. Se alla crisi economica si sovrappone l’inflazione, avremo una stagflazione da cui sarà molto difficile uscire. No, non so cosa avrebbe indicato Keynes oltre all’intervento dello Stato e a protezioni doganali. Ma la mia è la risposta del pessimismo.