Nella tragedia il non-rappresentabile è la spia della realtà: i Lager e la migrante Josefa
maggio 20, 2020 in Approfondimenti, Recensioni da Mario Baldoli
Nel film Austerlitz (2016) il regista ucraino Sergei Loznitsa mostra il Lager di Auschwitz diventato ora un sito turistico. I visitatori entrano nella camera a gas, una famigliola si fa fotografare con alle spalle l’insegna Arbeit Macht Frei. E’ avvenuto il capovolgimento del limite, il gioco si è impadronito dell’orrore.
Quasi in una previsione Elie Wiesel aveva scritto in La notte (1958), è il non rendersi conto, il non poter rendere conto dell’inferno di Auschwitz.
Cosa resta della memoria dei Lager? A parte pochi libri di storia (poco letti), come le immagini, i film hanno interpretato l’orrore?
Più di mezzo secolo fa, in Italia apparve Kapo (1960) di Gillo Pontecorvo, un film all’epoca considerato scandaloso, che fece conoscere i Lager e i loro deportati. Provocò mesi di discussioni. In Kapo l’orrore dominava lo schermo, diventava spettacolo. Ma è possibile, sessanta anni dopo mettere in spettacolo una tragedia?
Ancora: le fotografie di bombardamenti che G9 ha pubblicato alcune settimane fa aiutano a capire il tema di oggi: lo sguardo e il suo impatto. Una fotografia mostrava una città annientata, solo pochi mozziconi contorti sul terreno; un’altra un tram abbandonato, uscito dalle rotaie ma rimasto quasi diritto sulla strada, intorno dei condomini intatti.
La seconda fotografia ha un impatto maggiore della prima: conosciamo i resti di un bombardamento aereo, la distruzione di una città è un orribile spettacolo che abbiamo visto troppe volte. La foto del tram invece è un particolare, rimanda a un interlocutore che non c’è (potevamo essere noi su quel tram deragliato), ma non è solo un’identificazione, è una fotografia allusiva, uno squarcio che mostra la guerra intera.
Come rappresentare l’orrore oggi che siamo saturi di immagini di popoli sotto le bombe, soffocati dall’ossessione del vedere?
Riusciamo ancora a cogliere la pressione dell’invisibile, la “vibrazione fossile” che unisce l’oggetto alla sua forma, quella che riconfigura l’immagine rendendola critica, che crea un nuovo strumento di pensiero e lo prolunga fino a farci sentire quanto sono necessari lo sfuocato e l’inesatto?
Seguo il percorso di Michele Guerra, Il limite dello sguardo, Cortina 2020, centrato su alcune fotografie sulla Shoah e sulla loro evoluzione.
Immagini allusive: forse insuperabile è la fotografia dei fratelli Jacob appena arrivati ad Auschwitz. Il più grande è contratto, le spalle nervose, il braccio teso in una linea spezzata che culmina nella mano quasi chiusa. Lo connota la stella di David in evidenza sul cappotto facendoci pensare che è il più esposto, il più in pericolo, oltre che il più cosciente: guarda fuori campo col volto preoccupato e impaurito. Il fratello minore è più disteso, il suo cappotto aperto nasconde la stella, guarda il fotografo. Ambedue hanno cappotti eleganti col collo di pelo, sono di una famiglia benestante. Cosa vedono? Chi li ha fotografati?
Questa immagine-lacuna apre a un invisibile che preme dall’esterno in modo tale da darle forma. Il controcampo da interrogare, il Lager sta all’esterno, non nell’immagine, ecco quanto siamo distanti da Kapo.
Qualunque tragedia rappresentiamo: la Shoah, la guerra, l’emigrazione prendono forza dall’assenza. Ecco due foto di Josefa, naufragata nell’attraversamento del Mediterraneo. E’ al centro di un triangolo, il corpo molle, abbandonato, con intorno tre soccorritori. (foto di Pau Barrena).
Nella seconda vediamo i suoi occhi aperti sul vuoto, due pozzi di terrore (foto di Juan Medina). Cosa sta guardando Josefa?
Il controcampo manca, sono occhi che hanno visto qualcosa cui l’umano non avrebbe dovuto assistere e sopravvivere, (Primo Levi).
In Notte e nebbia (1955), un mediometraggio, Alain Resnais ci dà l’essere ancora in mezzo a noi, ma svelato dal fuoricampo: immagini d’archivio, immagini di corpi morti, martoriati, accatastati, capelli, oggetti abbandonati in un repertorio in bianco e nero. In contraddizione, Resnais filma a colori la “normalità” dei Lager liberati, oggi coperti dall’erba spazzata dal vento, muti, disattivi. La forza del film sta nelle sue “non immagini” che porta dentro di noi.
Altra interpretazione è quella del regista ungherese Laslo Nemes,Il figlio di Saul (2015) che sembra riprendere Primo Levi in I sommersi e salvati (1986): I primi giorni di Lager sono rimasti impressi nella forma di un film sfuocato e frenetico, pieno di fracasso, furia e privo di significato.
Nemes costruisce con estrema precisione il Lager nella parte esterna e in quella interna, ma non lo mostra quasi mai in modo chiaro. Nel film volti e corpi sfuocati entrano ed escono dalla macchina da presa. L’unico corpo “a fuoco” è quello di un Sonderkommando di Auschwitz, un ebreo di quelli che accompagnavano i deportati alla camera a gas. Alcuni Sonderkommando hanno lasciato il diario di quei giorni sepolto sottoterra sperando che poi venisse ritrovato, e così fu: Caro scopritore, cerca dappertutto, in ogni centimetro di terra. Qui sotto ci sono sepolti una decina di documenti diversi, miei e di altri che faranno luce su ciò che è accaduto in questo luogo. Vi è sepolta anche una grande quantità di denti. Li abbiamo sparsi apposta nel terreno perché il mondo potesse trovare le tracce concrete dei milioni di uomini ammazzati.
Il film è caratterizzato da uno scacco alla chiarezza, mostra l’impossibilità di mediare qualcosa che sfugge alle mani sempre più deboli dei sopravvissuti nel suo graduale sfuocarsi nei colori del grigio e del nero così che a volte sembra che il Lager venga di nuovo incontro a noi,
Claude Lanzmann in Shoah (1985) ha portato alcuni superstiti a parlare davanti ai luoghi dov’erano stati deportati costruendo una suggestione di grande potenza.
Di Treblinka parla il barbiere, nel momento in cui sta tagliando i capelli a un uomo nella sua attuale bottega. Nel Lager lui e altri barbieri dovevano tagliare i capelli alle donne. Noi parrucchieri cominciavamo a tagliare i capelli, e quasi tutte sapevano a cosa andavano incontro. Le donne erano nude. Facevamo del nostro meglio per essere il più umani possibile. I capelli andavano tagliati il più profondamente possibile ma dando l’impressione di effettuare un taglio normale. Sedici parrucchieri tagliavano i capelli a 60-70 donne, due minuti per ognuna. Poi per cinque minuti si fermavano e le donne venivano asfissiate. All’improvviso la Shoah diventa visibile attraverso una barberia.
Il libro di Michele Guerra conclude con Harun Farocki, Images of the world and the inscription of war (1988). Si vedono delle foto del 1943 prese da un aereo americano che individua le fabbriche vicine ad Auschwitz: quelle fabbriche furono messe in chiaro, ma a nessuno venne in mente di analizzare le baracche che apparivano lì accanto dove i deportati sono una lunga fila di puntini. In un’altra foto appare un’ebrea che passa davanti ad una fila di persone controllate da una SS. La donna è bella e sa che morirà, guarda l’obiettivo con uno sguardo duro e ferito, quasi sentisse all’improvviso lo scatto. Seguono immagini sfuocate, imprecise. Il non rappresentabile è la spia della realtà.