Il mio amico è un robot
gennaio 31, 2020 in Approfondimenti, Recensioni da Paolo Merini
C’è una parola chiave per capire il significato del saggio di Paul Dumouchel e Luisa Damiano, Vivere con i robot. Saggio sull’empatia artificiale, ed. Raffaello Cortina: Empatia, la nascita di una comunione affettiva con un altro individuo in seguito a un processo di identificazione.
Per arrivare al robot empatico è bene cominciare con un test che sveli se siete apocalittici o ottimisti. Volete che i robot sostituiscano il lavoro umano ma che restino dipendenti dall’uomo? Volete che siano completamente autonomi?
Come dicevano i filosofi medioevali seguendo Aristotele: tertium non datur, perché la tecnologia non si ferma. Ma i contrari si possono superare in una sintesi, come ha insegnato Hegel.
E’ il risultato di questo libro breve e intelligente che fonde la paura e l’entusiasmo, pur lasciando un dubbio finale.
I dati di fatto: i robot sono sempre più numerosi, ogni anno al mondo ne nascono migliaia, diventeranno il sostituto dell’uomo. Fanno di tutto: c’è quello che assembla parti meccaniche ed elettroniche, ma anche l’impiegato, il fattorino, il magazziniere, l’autista, il giornalista, il radiologo, il contadino, il pompiere. Nascerà anche l’addetto ai piaceri erotici, previsto nel Dormiglione di Woody Allen, forse.
Nel 2017 sono stati prodotti e venduti 387.000 robot, con in testa per produzione e uso la Cina, che ha creato la prima fabbrica “deumanizzata” in cui gli operai sono scesi da 650 a 20, poi il Giappone che, diversamente dai paesi europei ha un formidabile ottimismo verso un futuro robotizzato. L’Italia va forte coi robot: nel 2017 ne ha prodotti 8.000 (italiano è il “pompiere”).
Al World economic forum di Davos si è previsto che entro il 2020 i robot toglieranno 5 milioni di posti di lavoro perchè “nel tempo breve” (quanto breve?) ci saranno disoccupati che a cinquant’anni non troveranno un lavoro né potranno aggiornarsi in modo accettabile mentre, aggiungo io, non c’è più un’America spopolata dove possano andare, come nei secoli scorsi. Anzi oggi il problema della migrazione è quello che più determina la politica dei governi.
Ma grande è la confusione sotto il cielo intellettuale.
Da Washington l’Istituto Aspen (vedi la rivista “Aspenia”, direttore Lucia Annunziata, editore “Il sole24ore”) in La politica dell’algoritmo, prevede invece un aumento dell’occupazione in nuovi settori che nasceranno a cascata dall’intelligenza artificiale e dalla robotica, come nelle precedenti rivoluzioni industriali.
La rivista dice anche che al disoccupato la digitalizzazione consentirà di scegliere di lavorare dove il costo della vita è più basso, “in regioni meno sviluppate e a condizioni meno onerose”, argomento cui la stessa rivista crede poco dato che ritiene un’ottima cosa la crisi demografica europea, per non parlare del fascino di un trasloco, magari in Nigeria.
In “Aspenia” l’unica voce discorde è quella del sociologo Domenico De Masi che, a forza di cifre, mostra come nemmeno le precedenti rivoluzionj industriali abbiano portato più occupazione e vede, keynesianamente, una risposta alla robotizzazione nella crescita del tempo libero come notava anche Bertrand Russel: “Abbiamo continuato a sprecare tanta energia quanta ne era necessaria prima dell’invenzione delle macchine: in ciò siamo stati stupidi, ma non c’è ragione per continuare ad esserlo”.
Torno a questo nuovo tipo di migranti, i robot, raccontati da Dumouchel e Damiano, due filosofi della scienza e della mente.
Il loro libro studia la robotica sociale, un robot come “sostituto” di qualcuno, ma oggetto indipendente in grado di soddisfare esigenze diverse. A differenza per esempio delle macchine impiegate in banca che compiono solo le operazioni per cui sono programmate, il robot deve destreggiarsi in situazioni diverse.
Il robot sociale, pensato soprattutto per bambini e anziani con vari problemi, può far progredire la nostra attitudine alla socialità: più faremo robot simili a noi, più crescerà il nostro dominio cognitivo, proprio perché la trasformazione del mondo è inseparabile dall’esplorarlo.
Al centro del robot dovranno esserci i sentimenti: dovrà essere emozionale ed empatico, quindi dovremo lasciargli un certo grado di libertà. La sua partecipazione relazionale può essere artificiale (una finta partecipazione) o reale: su questo esistono due scuole di pensiero, come sul fatto se il robot sarà indipendente o guidato, ma in ambedue i casi deve essere attento, aver memoria del passato, rispondere alle domande, essere contento, dispiacersi, integrarsi nel nostro tessuto sociale, interagire.
“La nostra mente ha caratteristiche che non siamo (ancora) in grado di riprodurre (…) ma un giorno potremo colmare il divario” perché è diversa di grado, non di natura, inoltre si è già estesa con l’uso di internet.
Gli autori portano tre esempi di robot, quello che preferiscono è Kaspar, giocattolo terapeutico pensato per bambini autistici. Kaspar aiuta a potenziare le abilità sociali, a comprendere le emozioni altrui e a esprimere le proprie. Ha le dimensioni di un bambino di tre anni, muove tronco, braccia, testa, apre la bocca. Sarà anche utile che la sua superficie sia morbida così da poter essere accarezzato da un bambino.
In questa relazione, il robot è migliore dell’uomo, non gesticola, non è fuorviante, interagisce e crea una dinamica affettiva nella quale non ci sono vergogne o timori, è un essere con cui ci si può confidare senza temere giudizi.
Ma il problema dell’etica rimane: il robot deve distinguere il bene dal male, imparare regole che derivano da un sistema morale che, secondo gli autori, potrebbe essere l’utilitarismo. Poi i robot crescono, ed ecco il dubbio finale: governare i robot sarà molto difficile in una guerra. Dovrebbe cambiare la mentalità militare, dicono gli autori, ma sappiamo che l’umanità non è pronta a questo. Ciò che può avvenire in una guerra è imprevedibile. Già oggi ci sono sistemi automatizzati che reagiscono senza percepire, come le mine antiuomo. Ci sono dispositivi che prendono l’iniziativa da soli confrontando in un attimo migliaia di dati.
Il campo si battaglia sarà gestito da loro, ma i governi devono limitare il comportamento violento: occorrono regole di guerra. Ciò sembra impossibile, ma io credo – ispirandomi a un dialogo con Primo Levi – che gli Stati dovrebbero accordarsi e programmare i robot almeno facendo in modo che le popolazioni non siano colpite. Purtroppo le strategie prevedono il contrario. Ma la guerra fatta tra eserciti senza il massacro delle popolazioni è avvenuta ancora nella storia con la guerre in dentelles del Settecento, ricostruita da Franco Cardini, e in parte nella prima guerra mondiale.