Il segreto del tasso [8]
febbraio 10, 2017 in Letteratura da Silvano Danesi
Per il vecchio druida venuto dal Nord trascorsero molti giorni sereni in compagnia degli abitanti del villaggio, ai quali raccontava della sua vita in un mondo lontano, non solo per la distanza, ma per gli usi e i costumi.
Un mattino Gwydd si svegliò più presto del solito. Il villaggio era in fermento. Nella case fervevano i preparativi per una giornata che si annunciava speciale. Il cielo era carico di nuvole e la pioggia era battente, incessante, sin dalle prime ore della notte.
Ka Ra Nos, il nume locale che tutelava la fertilità dei campi, ancora una volta, nel giorno a lui dedicato, aveva assicurato pioggia abbondante. Una pioggia che puliva l’aria, nutriva la terra, incitava i semi nascosti nelle zolle a compiere il miracolo che ogni anno si rinnovava e che vedeva sui campi, in pochi giorni, spuntare erbe nuove, nuovi fiori, per una nuova stagione di vita, dopo il lungo sonno dell’inverno.
In quel giorno speciale, dove la Madre Terra era bagnata dal dono del cielo che ridestava nel suo grembo la vita, Gwydd sentì dietro di sé crescere un’energia che ben conosceva. Chiamò la sacerdotessa che lo accudiva e le chiese di preparare i suoi abiti rituali: una lunga clamide bianca, con le maniche lunghe che si allacciavano sugli avambracci. La veste era orlata di rosso porpora e da finissimi intrecci ottenuti con fili d’oro. Sul petto un simbolo riproduceva, nello stesso color porpora delle orlature, le foglie del sacro vischio legate da una fascia d’oro.
Gwydd si recò al ruscello, nonostante le cateratte del cielo continuassero a mantenere la pioggia fitta e battente. Si lavò con accuratezza ogni parte del corpo, seguendo un preciso rituale di purificazione. Quando ebbe finito si sedette accanto al focolare e bevve, sorseggiando lentamente, un infuso bollente di salvia. Riscaldato il vecchio corpo dentro e fuori, indossò gli abiti rituali. Quando uscì dalla casa che lo ospitava aveva nella mano sinistra il suo bastone e sulla fronte una fascia bianca, che gli avvolgeva il capo e ricadeva sulla spalla destra, suddividendosi, verso la fine, in due lingue bianche orlate di rosso. Dal polso della mano destra pendeva un intaglio di diaspro rosso, dalla forma vagamente tetraedrica.
Sulla porta della capanna druidi e sacerdotesse, avvertiti della straordinarietà del momento dal lungo lavacro rituale del vecchio druida, aspettavano in silenzio.
Gwydd uscì con passi lenti e con lo sguardo annebbiato. Cominciò a camminare verso est, sempre più lentamente, man mano procedeva. Sentiva che la vista gli veniva meno e che a guidarlo non erano più gli occhi ma un senso d’orientamento che gli veniva da una profonda unione con la natura circostante.
Gwydd era l’erba che calpestava, le pietre che toccava, gli alberi a cui si appoggiava; era l’acqua che gli inzuppava i vestiti, la brezza gelida che lo faceva intirizzire, il canto delle cornacchie che volteggiavano in cielo; era il respiro della terra, che danzava al ritmo del suo cuore. Il Merlino era in lui e lui era il Merlino.
Camminò a lungo, seguendo un percorso dettatogli dall’istinto, fino a un punto in cui gli parve di sentire tra i denti uno strano sapore. In quel punto si fermò, si volse verso le cime dei monti, con le braccia aperte per accoglierne il consenso, poi prese il bastone per il fondo e con la parte alta, massiccia e nodosa, percosse tre volte la terra, pronunciando parole di verità. Fu a quel punto che la terra si aprì, lasciando fluire un abbondante fiotto d’acqua, carica di un rosso deposito di ossidi di ferro.
Ai druidi e alle sacerdotesse sembrò che fosse il sangue della Dea, che usciva dal profondo delle viscere della terra. In poco tempo si formò una larga pozza. Gwydd, nel frattempo, si era appoggiato al bastone e la clamide, irrigidita, sembrava lo sostenesse. In quel momento di gioia ma di grande stanchezza, il vecchio druida che aveva incarnato il Merlino, appariva fragile e minuto I druidi lo circondarono e lo aiutarono a scaldarsi, mettendolo al riparo della pioggia che non aveva mai smesso di cadere.
Acqua dal cielo e acqua dalla terra, nel giorno di Ka Ra Nos. Nella “Montagna di ferro” l’acqua si impreziosiva e la nuova fonte poteva, con le sue qualità medicinali, offrire sollievo e guarigione. Per i druidi e le sacerdotesse di Bar Ailt era iniziata una nuova vita d’impegno al servizio della Dea. Da quel giorno attorno alla fonte si sarebbe sviluppato un luogo di cura.
All’acqua della fonte ferruginosa si sarebbe aggiunta la perizia terapeutica delle sacerdotesse, che usavano i cristalli, i quali, a contatto con il corpo umano, sprigionavano vibrazioni intense, che avevano un effetto purificatore e stimolante della psiche.
Secondo le antiche conoscenze, molte malattie derivavano da traumi che si trasformavano in blocchi energetici. Le vibrazioni dei cristalli aiutavano a spazzarli via, liberando il flusso della carica vitale. Inoltre, a livello psicologico, infondevano una sensazione di benessere, di forza e di sicurezza.
Per sfruttare al meglio l’effetto purificante dei cristalli bianchi era ritenuto opportuno indossarli in un anello o in un bracciale, in modo che restassero a contatto con le mani.
Chi voleva rinforzare la propria sicurezza doveva indossarlo a sinistra, perché da quella parte del corpo si credeva che entrasse l’energia vitale. Quando invece si voleva far lasciare alle spalle uno stato depressivo i cristalli venivano spostati a destra, che era il lato da cui si riteneva uscissero le energie. Se si voleva far migliorare le capacità comunicative veniva consigliato di mettere i cristalli intorno al collo, come una collana. Per rinforzare la propria volontà, infine, si doveva usare un cristallo bianco di dimensioni più ragguardevoli e posizionarlo sulla testa, otto dita sopra l’attaccatura dei capelli e aiutare con la meditazione che la sua energia attraversasse tutto il corpo.
I cristalli gialli erano usati per le malattie di fegato. L’ammalato doveva metterli a contatto con la parte malata, tenendoli fissati mediante un’apposita fasciatura.
L’applicazione delle mani sulla parte malata sicuramente era un secondo ed integrativo trattamento terapeutico, probabilmente una pratica pranoterapica.
Un bardo seguiva le pratiche terapeutiche. Il suono che si sprigionava dal suo strumento aveva tonalità diverse: breve, acuto e vibrante per la cura con il cristallo bianco, più prolungato e basso con quello giallo, più ritmato e alle volte frenetico per la cura con il cristallo rosso.
Lo strumento musicale adoperato doveva fungere da diapason, così che il suono emesso mettesse in vibrazione i cristalli e, al contempo, inducesse nel paziente stati d’animo diversi.
L’infermo, seguito e guidato da una sacerdotessa, durante il periodo della cura, si muoveva lentamente seguendo un percorso prefissato, che passava davanti ad un’enorme pietra dalla forma di testa di un serpente che fuoriusciva dalla terra. Era il simbolo della Dea.
Bar Ailt, luogo sacro alla Dea, sarebbe stato per secoli un luogo di cura per intere generazioni.