Beppe Fenoglio: la Resistenza, le Langhe, l’attesa. A cinquant’anni dalla morte.

dicembre 7, 2013 in Letteratura da Sonia Trovato

beppe-fenoglioBEPPE FENOGLIO
Scrittore autentico, plasmatosi
nel silenzio della città e delle langhe
davanti a tanti fogli bianchi,
riempiti e corretti infinite volte,
quasi raschiati e scarniti
sino a lasciare non più del necessario,
usando della sua gente il gergo e il dialetto
perché si ritrovasse, leggendo,
nell’immane fatica,
nel duro e aspro lavoro,
nella guerra sulle colline…
 
Giulio Parusso
 

Sempre sulle lapidi, a me basterà il mio nome, le due date che sole contano e la qualifica di scrittore e partigiano scriveva Fenoglio nel suo libro d’esordio, quei Ventitre giorni della città di Alba che gli scatenarono addosso il fuoco incrociato della critica marxista più pedante. All’epoca di questa volontà testamentaria, l’albese probabilmente non immaginava che le due date che sole contano, quella di nascita e quella di morte, potessero essere divise da soli quarant’anni e che un cancro polmonare in stadio avanzato lo strappasse a una moglie e a una figlia di ventiquattro mesi, facendone l’ignaro inauguratore della tomba di famiglia.

Al dolore privato di parenti e amici seguirono le dichiarazioni di pubblica ammenda del milieu letterario, il quale, con una certa ipocrisia, capì troppo tardi la grandezza di uno scrittore che seppe fare della conoscenza dell’inglese e del rifiuto dell’allineamento alla memorialistica resistenziale più dogmatica le proprie peculiarità narrative. Oggi si deve dire che la letteratura di Fenoglio si distacca da tutta l’altra letteratura della Resistenza. Fenoglio ha cercato di privatizzare l’esperienza di tutti, cioè il rovescio di quanto hanno fatto tutti gli altri scrive Carlo Bo. Già, oggi, ma al tempo in cui il più isolato di tutti era ancora in vita, il sospetto di essere uno scrittore di quart’ordine, come si definì in una malinconica nota del suo diario, lo lacerò. Non per questo cesserò di scrivere ma dovrò considerare le mie future fatiche non più dell’appagamento di un vizio. Eppure la constatazione di non essere riuscito buono scrittore è elemento così decisivo, così disperante, che dovrebbe consentirmi, da solo, di scrivere un libro per cui possa ritenermi buono scrittore.

021113attesaDi capolavori non ne scrisse uno, ma due, Il partigiano Johnny e Una questione privata, gioielli della narrativa novecentesca che il fratello Walter rinvenne nel suo cassetto il giorno del funerale. Da allora si scatenarono le discussioni relative alla cronologia delle opere. E noi, che avremmo dovuto sapere, non ne avevamo la minima idea spiega, con una certa commozione, la sorella Marisa, in chiusura dell’incontro di due giorni con il quale Alba ha voluto celebrare il cinquantesimo anniversario della morte dello scrittore. Come avevo potuto persuadermi che io possedevo la forza dell’attesa?, si domanda il protagonista di Nella valle di san Benedetto, racconto dal quale il comitato scientifico ha mutuato il titolo del convegno. Forza dell’attesa che Fenoglio ha dimostrato sfidando lo scetticismo dei genitori, macellai e più che mai guardinghi nei confronti di una professione che professione, ancora, non era e che aveva tutta l’aria di un capriccio per aristocratici annoiati. L’ex partigiano riuscì, nell’angusto alloggio di Piazza Rossetti posto sopra la macelleria, a ritagliarsi il suo angolo creativo e a far convivere questa dirompente e feconda piena letteraria con il lavoro impiegatizio presso la ditta Marengo. Componeva prevalentemente di notte, intervallando i battiti della macchina da scrivere con avide boccate alla sigaretta e lavorando con uno zelo quasi maniacale. Scrivo per un’infinità di motivi. Non certo per divertimento. Ci faccio una fatica nera. La più facile delle mie pagine esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti dichiarò l’albese. Il risultato finale – per quanto risulti forse inappropriato riferire l’aggettivo “finale” a uno scrittore prevalentemente postumo – è una scrittura asciutta, priva di orpelli retorici, che tratta con estrema oggettività e crudezza la civiltà contadina e la guerra partigiana.

Fenoglio rifiutò di farsi cantore di una Resistenza retorica, edulcorata e mitizzata, immortalando partigiani che, nonostante i roboanti nomi di battaglia, risultano disarmanti nella semplicità dei ragionamenti, talvolta nella pochezza ideologica e, spesso, nella violenza efferata. La distanza cronologica tra la sua Resistenza e la stesura delle sue opere gli servì per raffreddare, per così dire, una materia tanto incandescente. L’autore non ha mai inteso equiparare repubblichini e antifascisti, come gran parte della critica gli aveva inizialmente imputato, poiché a nulla era più fedele che al ricordo dei suoi amici fucilati sulle colline e impiccati nelle città, scrisse il suo ex professore e a sua volta partigiano Pietro Chiodi. L’autore ha semplicemente voluto mettere il romanzesco in primo piano rispetto alla Storia, così da essere uno scrittore partigiano e non un partigiano scrittore che si limita, da testimone oculare, a mettere su carta dei fatti meramente autobiografici. Lasciandoci trascinare nelle peregrinazioni epiche dei suoi personaggi, noi lettori abbiamo modo di assaporare la Resistenza vera come non era mai stata scritta, come comprese Calvino.

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A cinquant’anni da quel tragico ultimo respiro esalato nel letto dell’ospedale torinese delle Molinette, Alba ha riunito, presso la Fondazione Ferrero, importanti nomi della critica letteraria e della cultura (Ferroni, Casadei, Rinaldi, Givone, per citarne alcuni) e giovani ricercatori, mostrando come l’opera fenogliana si presti a svariati settori di studi, non soltanto letterari. Ancora aperta rimane infatti la questione filologica, relativa alla cronologia e alla  compiutezza delle opere postume, nonché ai cambiamenti che investono i romanzi nel passaggio tra una redazione e l’altra. Anche la storiografia può attingere alla narrativa dell’albese come a una vera e propria fonte storica, per rivivere la quotidianità della guerra e della Resistenza, delle Repubbliche libere durante l’estate del ’44, per comprendere i complessi rapporti tra il mondo partigiano e quello contadino e la funzione assunta dal clero nella Seconda guerra mondiale.ritratto fenoglio L’opera del piemontese è anche imbevuta di filosofia esistenzialista, tributo agli insegnamenti di Pietro Chiodi. E pure gli studi anglofoni possono beneficiare della sua prodigiosa conoscenza dell’inglese, di cui l’ex partigiano fu studioso appassionato, arrivando a tradurre a prima vista Shakespeare e Hopkins e a trasformare la lingua parlata Oltremanica in uno strumento duttile e misterioso al servizio della sua letteratura.

Fenoglio è, ancora oggi, uno scrittore vivo, che si comprende appieno occupandosi anche, e forse soprattutto, di ciò che elide, che nasconde e che tace, nelle sue pagine scarne ma dense, essenziali ma copiose, antiretoriche ma, più che mai, struggenti e indimenticabili. Come il Milton di Una questione privata che insegue la sua amata Fulvia, anche noi lettori dobbiamo attraversare l’inferno della guerra sulle colline scroscianti di pioggia per cercare di afferrare il senso che si cela dietro la sua poetica della reticenza, dietro questa calibratissima strategia dei silenzi, crollando, come il protagonista nel finale, di fronte all’enigmaticità di questo scrittore straordinariamente talentuoso che, conclude Giulio Parusso, aveva lasciato un segno come raschio di zoccolo sulla pietra e già se n’era andato, in fretta; troppo.

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