Bling Ring, o l’ebbrezza della vacuità
novembre 2, 2013 in Cinema da Elisa Masneri
Sofia Coppola, con Bling Ring, torna a raccontare una storia di adolescenti alle prese con il difficile passaggio dall’infanzia all’età adulta: un tema evidentemente molto caro alla regista, poiché rintracciabile, in modi diversi, in tutta la sua produzione, compresi gli apici de Il giardino delle vergini suicide (1999) e di Marie Antoinette (2006).
In questo caso, la trama è ispirata ad una vicenda realmente accaduta a Los Angeles tra il 2008 e il 2009, con protagonisti un gruppo di ragazzi benestanti e annoiati, ossessionati dallo stile di vita delle celebrità più alla moda, che si introducono nelle ville dei loro beniamini per rubare vestiti, gioielli, accessori e contanti per un totale di 3 milioni di dollari. I giovani controllavano ossessivamente le stars sui siti di gossip e sui social networks per scoprire quando i personaggi famosi erano fuori casa; cercavano poi in rete i lori indirizzi ed entravano in azione. La vicenda sale agli onori delle cronache nell’autunno del 2009, quando vengono arrestati i sette componenti della Bling Ring, nome inventato dagli agenti di polizia, dove ring sta per banda e bling per gioiello luccicante e appariscente. La storia è accattivante e inquietante, perfetta per i giornali americani, che per mesi seguono morbosamente l’evolversi giudiziario della vicenda e lo stravolgimento delle vite dei giovani protagonisti: anche il regista Michael Lembeck, nel 2011, cavalca l’onda e gira un film documentario per la tv. Sofia Coppola si interessa alla storia dopo aver letto un articolo di Vanity Fair (I sospetti indossavano Louboutins di Nancy Jo Sales), e decide di tradurla in un film, con l’intenzione di non dare un giudizio sui ragazzi, ma solo di raccontarli attraverso i furti assurdi che hanno commesso. Per non dare ulteriore notorietà ai componenti della gang, la regista cambia i nomi e in parte anche la vicenda, preferendo mettere in risalto la loro attrazione per la fama e la ricchezza ostentata, analizzando una tendenza già sviluppata nella società americana (e non solo): la fama immotivata e fine a se stessa, l’essere celebri non perché si possiedono alcune qualità o perché si raggiungono successi professionali, ma l’essere famosi perché si è famosi. Le starlette che le ragazze del bling ring ammirano e copiano, appartengono a questa categoria di personaggi, di cui Paris Hilton, che compare nel film, ne è l’icona.
L’attrazione per questo genere di celebrità non spinge gli adolescenti ad impegnarsi per sviluppare un talento nella recitazione, nella danza, nel canto o in qualsiasi altra forma d’arte, perché la loro fama è dovuta esclusivamente agli oggetti di lusso di cui si circondano. Sono gli oggetti delle star, infatti, a provocare l’ossessiva attrazione dei componenti del bling ring, una seduzione per l’oggetto materiale che diventa seriale fino all’assurdo: i giovani ladri, dopo aver rubato scarpe e borse di marca, non sanno che farsene, le fotografano per vantarsi sui social networks e poi le stipano in cantina o in soffitta; addirittura, ad un certo punto, organizzano una bancarella per rivendere alcuni degli oggetti rubati. In questo morboso gioco d’emulazione, le ville che derubano diventano dei lussuosi supermercati dove tutto è gratis, colorato e scintillante; i ladri si servono persino dei frigoriferi e delle toilette, in un gioco di identificazione con la star preferita che culmina nella scena in cui Rebecca (Katie Chang), si spruzza estasiata il profumo di Lindsay Lohan.
Grande importanza viene data ai social networks, vera ossessione, a tratti dipendenza, dei ragazzi delbling ring (e non solo): la condivisione a tutti i costi porta a vivere delle vere e proprie esistenze digitali, in cui non è tanto importante che cosa si fa, ma che cosa si posta, quale immagine virtuale si riesce a dare di sé. Rubare diventa semplice come postare una foto su facebook e la realtà prende forma solo con l’arresto. È in quel momento che la superficialità e il vuoto che riempie le vite dei protagonisti si manifesta con violenza: i ragazzi non sono pentiti, ma solo spaventati; incolpandosi tra loro, dimostrano che non c’era nemmeno l’amicizia a legarli.
Chiarito che lo scopo della Coppola era senza dubbio quello di sottolineare, anche con una regia legittimamente scarna, la pochezza e la banalità delle vite di questi adolescenti, e forse delle nuove generazioni, resta il vuoto cosmico nel quale si sviluppa il film.
La passiva descrizione degli eventi infatti non riesce a colpire in nessun modo lo spettatore, che può al massimo provare noia. La narrazione procede per sussulti, alcune scene sembrano inserite solo per raggiungere i 95 minuti, la ripetitività delle sequenze e la totale mancanza di qualsiasi tipo di pathos rendono la pellicola tediosa.
L’unica sequenza notevole è la ripresa notturna, in camera fissa e campo lungo, della villa della starlette Audrina Patridge: la macchina da presa diventa la telecamera di sorveglianza che filma i ragazzi, che si muovono da una stanza all’altra, avvolti nel silenzio della notte, rotto solo dai rumori della città sottostante. Purtroppo questa e le poche altre scene notevoli si perdono nei fumi di una pessima sceneggiatura e di una fotografia da social networks.
Con la scusa di non voler giudicare i ragazzi, la Coppola rinuncia totalmente all’approfondimento psicologico dei protagonisti, del contesto in cui vivono e dei loro genitori. Come se non bastasse, la storia narrata nel film, che promette di scuotere le coscienze e creare scandalo, è superata dalla realtà, sempre più incredibile della finzione: la diciottenne Alexis Neiers, interpretata da Emma Watson, era già famosa a Hollywood per essere un’assidua frequentatrice dei luoghi della vita mondana, nel suo continuo tentativo di entrare nel mondo dello spettacolo. Figlia di un’ex coniglietta di Playboy e di uno scenografo televisivo, era la protagonista di un reality show chiamato Pretty Wild (sul canale E!), che raccontava la sua vita di aspirante modella. Pochi giorni dopo la messa in onda della prima puntata, la ragazza viene arrestata e il programma diventa un reality sul processo, con le telecamere che la riprendono mentre esce dal tribunale o mentre, in lacrime, si proclama pentita e sconvolta. Di tutto questo non c’è nessun accenno della pellicola.
Il grandioso lancio commerciale ha riempito per mesi il web di pubblicità, creando una grande attesa. La scelta di utilizzare i social networks come veicolo pubblicitario, l’insistenza nel mostrare gli oggetti di lusso presenti nel film e gli spoiler che preannunciavano i cameo di Paris Hilton e delle altre stars, fanno credere che il target per cui il film è stato pensato fosse proprio quello degli adolescenti, considerato anche che Mtv ha sponsorizzato il progetto. Far passare una grande operazione commerciale per ragazzine per un film scandalo sulle nuove generazioni è l’unica grande impresa che è riuscita alla Coppola.