Chi ha suicidato il PD. E chi continuerà a farlo.
luglio 13, 2013 in Crisi da Sonia Trovato
Caro Ivan Scalfarotto,
la settimana scorsa ho avuto la sventura di assistere, a Roma, alla Sua performance oratoria, in occasione della presentazione del libro Chi ha suicidato il PD (Imprimatur, 2013), scritto dal giornalista Alessandro Gilioli. Parlo di sventura perché, prima di allora, pensavo che l’identikit del colpevole avesse i baffetti di D’Alema, gli occhialetti tondi di Veltroni, il viso affusolato di Fassino e la voce rauca della Finocchiaro, cariatidi di cui le (più) giovani leve non vedono l’ora di sbarazzarsi per tornare ad essere un partito di sinistra.
SentendoLa invece sproloquiare per più di un’ora di sinistra liberal, di modello anglosassone e dell’importanza di chiudere a doppia mandata in soffitta lo spettro del PCI, mi sono detta che se Tomasi di Lampedusa fosse ancora vivo assurgerebbe il logo del PD a stemma araldico dei gattopardi, quelli del tutto cambia affinché tutto rimanga com’è. Constatare quanto i giovani assomiglino già ai vecchi nell’attaccamento al Potere, nella strenua e sperticata difesa dei padroni a discapito dei lavoratori precari e dei disoccupati, nella ferma convinzione che una sinistra moderna e postideologica sia quella che si schiera con Marchionne, che vota per gli F-35 e per il TAV, che si tira a lucido per partecipare alle convention di CL e alla presentazione del libro di Vespa, fa venir voglia di pregare la vecchia nomenclatura di rimanere salda al comando. Sostituire dei sessantenni che scambiano l’apologia di questo capitalismo scellerato per “sinistra moderata” con dei quarantenni che fanno altrettanto mi sembra un’inutile perdita di tempo.
Nella mezz’ora di politichese con la quale ha cercato di rispondere alla domanda di Gilioli – Chi vi ha dato il diritto di trasformare 8,5 milioni di voti per smacchiare il giaguaro in voti per difendere gli interessi del giaguaro? – si è appellato a un fantomatico senso di responsabilità verso il Paese, sostenendo che non votare la fiducia avrebbe significato, nel suo personale codice cavalleresco, decidere di uscire dal PD e rinunciare all’incarico di deputato. Proprio Lei che, in linea con il Suo partito e con la stampa compiacente, rimprovera al M5S una scarsa trasparenza e una gestione dittatoriale delle candidature e delle espulsioni, decide di votare per un governo che, parole Sue, non Le piace, pur di non tornare alle elezioni e pur di non dare ai giornali il pretesto per parlare di un partito diviso.
Su questo punto, caro Scalfarotto, può dormire sonni sereni, dato che il Partito non è mai sembrato così unito: unito nel riconfermare al Colle un Presidente ottuagenario che aveva giurato che non avrebbe accettato una ricandidatura; unito nell’appoggio incondizionato al governo di tagli e austerity presieduto da Monti, di cui l’esecutivo di Letta è, ahimè, un triste epigono; unito, infine, nel difendere gli interessi di un ex piduista plurinquisito e in odore di mafia, che in vent’anni ha sdoganato la peggior destra di sempre, quella picchiatrice, sguaiata e razzista, responsabile di una legge – la Bossi-Fini – contraria alla Convenzione di Ginevra e a qualsiasi senso di humana pietas. Lei, omosessuale dichiarato in prima linea per le battaglie civili, cosa pensa di ottenere da uno schieramento che La considera, nella migliore delle ipotesi, un ricchione, un frocio contronatura? Come può dialogare con una formazione politica che Meglio con le minorenni che gay? Pensa che i pochi elettori che ancora non si sono risvegliati dal torpore del “io, progressista, se non voto il PD chi voto?” digeriscano ancora per molto un Alfano al Viminale o un Brunetta onnipresente, solo perché il governissimo c’è anche in Germania e bisogna fare una nuova legge elettorale, urgenza peraltro caduta nel dimenticatoio, come tutti i proclami di Palazzo Chigi?
Quel pomeriggio ha detto che si sarebbe fermamente opposto a un’alleanza di governo con un partito personalistico, che fa del culto del Capo e del disprezzo delle istituzioni repubblicane la propria bandiera. Si riferiva ai vituperati grillini, che Le fanno orrore perché, nel pretendere provocatoriamente il 100% del consenso, Le ricordano infauste epoche storiche (bypassare, per la seconda volta, la consultazione elettorale imbastendo governi imposti da Napolitano no, eh? La serrata del Parlamento no, eh?). Come giudica, allora, un partito nato in una riunione aziendale e poi rifondato sul predellino di una macchina, che vi ha costretto a una vergognosa serrata di quattro ore del Parlamento come prova di forza contro il potere giudiziario e che mesi fa ha organizzato una marcetta eversiva di fronte al Tribunale di Milano?
Caro Scalfarotto, mai, come in quella libreria, ho percepito la frattura incolmabile che si è creata tra la classe dirigente e i cittadini. Mentre Lei blaterava di legge elettorale alla francese, alla tedesca, alla portoricana, alla tanzaniana e di primarie, un signore, disperato e tremante, Le raccontava di non dormire la notte al pensiero di non poter pagare lo stipendio alle sue otto dipendenti. Ho visto nitidamente che il suo SOS Le è scivolato addosso lasciandole, forse, un certo imbarazzo e poco altro. E mentre gli SOS si moltiplicavano, mentre Le chiedevano delucidazioni sulla riforma Fornero e sul perché l’aveste votata senza battere ciglio, Lei, imperterrito, proseguiva nell’encomio del modello liberal, indicando in Blair uno dei Suoi punti di riferimento. Quel Blair che molti non considerano di sinistra, solo – cito testualmente – perché ha commesso l’errore di appoggiare la guerra in Iraq, come se centinaia di migliaia di morti fossero una bazzecola, un incidente di percorso, e non, invece, l’ennesimo frutto marcio di un sistema economico che non esita a bombardare qualunque angolo del pianeta che possegga qualcosa di appetibile per l’Occidente.
In conclusione, caro Scalfarotto, consiglierei a Gilioli di affiancare, al profilo dei dirigenti decrepiti e collusi, anche il ritratto del colpevole di nuova generazione: è vestito in maniera meno ingessata, ha un linguaggio moderno e informale, chiama il suo attaccamento alla poltrona cambiare le cose dall’interno ed è convinto che una sinistra al passo coi tempi debba trattare Gramsci o Berlinguer (quel Berlinguer nel giugno ’76 portò il PCI al 34%, percentuali che il PD si sogna) come degli appestati e Briatore come un grande manager. Dopotutto noi dobbiamo essere chiari con gli italiani e dare loro anche la libertà di non votarci. Certamente, purché poi non facciate cartastraccia del risultato elettorale per la paura rimettervi alla volontà popolare. Finché i giovani dissidenti rientreranno nel prototipo sopra citato, caro Scalfarotto, l’apparato di partito è in una botte di ferro.
P.S. Questa rivista generalmente abiura la prima persona, ma, citando il motivo che ha indotto Gilioli a scrivere il suo libro, l’alternativa a questa lettera sarebbe stata l’analisi, soluzione più dispendiosa e, credo, meno catartica.