Un giorno a Palermo. Appunti di viaggio
gennaio 10, 2016 in Album fotografici da Pino Mongiello
Sicuramente ritornerò a Palermo. Da quando l’ho vista la prima volta, nell’ottobre scorso, m’è rimasto in testa un chiodo fisso: ritornarci!
I palazzi e le chiese sono sconfinatamente belli che quasi tolgono il fiato. I fiori che ricamano le vie con i loro colori spargendo profumi, catturano i sensi; e l’esotico campionario del mercato di Ballarò sa far precipitare in un immenso vortice di essenze gli occhi e la mente.
Ma quante contraddizioni in questa città! Sono anch’esse tali da togliere il fiato … mettono pure angoscia. La città al primo sguardo appare bella e immensa; poi si manifesta sciatta e vilipesa, non appena ci si addentra nei suoi vicoli o ci si avvia circospetti nei quartieri delle periferie. A voler leggere i suoi segni si scopre una trama di racconti le cui storie, nonostante una distanza secolare le divida da noi, proiettano i loro effetti anche sul presente, cioè sulla cultura e sulla vita politica di oggi.
Nord e sud, oriente e occidente sono qui concentrati. Su una t-shirt indossata da una ragazza ho visto stampato l’elenco di chi è transitato per questa città e per la Sicilia, si è fermato, ha costruito, ha dilapidato, ha lasciato memoria: cartaginesi, sicani, siculi, fenici, greci, romani, vandali, arabi, bizantini, normanni, svevi, angioini, borboni, piemontesi, americani… e l’elenco concludeva con questa battuta lapidaria: “N’è passata di gente senza ponte”. Sarebbe troppo facile ripetere il rosario di cose stranote intorno alle malepiante che allignano nell’isola.
Nel mio viaggio ho raccolto alcuni appunti fotografici: si tratta di cose diverse, disparate tra loro, di diseguale valore, che connotano parzialmente la vita e l’anima della città. Sono solo appunti, ripeto. In queste immagini, però, ritrovo tutte le emozioni provate al primo impatto con quei luoghi: rivedo la bellezza sfavillante dei mosaici che rivestono la Cappella Palatina, i segni della sperimentata convivenza e del reciproco rispetto tra culture lontane: latina, bizantina, araba, normanna; le tracce di una morte corrosiva e violenta, la volontà di riscatto di gente che non si rassegna al sopruso, le testimonianze di chi non accetta più di sottostare all’ingiustizia, alla furbizia e alla prepotenza.
Vicino al luogo dove la mafia uccise Paolo Borsellino e la sua scorta, in via d’Amelio, i palermitani hanno scritto a caratteri cubitali: “Paolo vive”. Nel quartiere Brancaccio, degradata periferia della città dove fu ucciso don Pino Puglisi, campeggia un tabellone che ricorda il pensiero dominante di quel prete: “Per amore del mio popolo non tacerò”.
Dalla mia camera d’albergo, posta sul lungomare davanti al porto, vedevo svolgersi una vita laboriosa, aperta ai traffici e al turismo. Sul retro, invece, la vista si apriva verso una baraccopoli di lamiera e di materiali posticci: sui tetti passeggiava indomita una capra. Ma non era tutto degrado. Sui muri perimetrali di uno spazio che era stato adattato a parcheggio campeggiavano i più bei murales che abbia mai visto in Italia. Una scritta di Pippo Fava mi ha colpito: “Che serve vivere se non si ha il coraggio di lottare?”