Un’idea di Pasolini
novembre 2, 2015 in Approfondimenti da Stefano Bottarelli
Quando Pier Paolo Pasolini è morto, il 2 novembre 1975, io avevo quindic’anni ed ero un qualsiasi studente ginnasiale che dalla provincia italiana raggiungeva la scuola nella città di Brescia. Bisognerà che qualcuno scriva ancora di questa storia, avevo pensato. Mi sono anche risposto: molti ne hanno già scritto. Eppure ritengo che ancora la verità non emerge, che ancora bisogna dire e scrivere di Pasolini, il poeta più vivo del secolo: peccatore che espia con una fine violenta; egocentrico e comunista, lirico e prosastico, nazionale ed europeo, popolare e borghese, seduttore e sedotto.
Nella Roma del Pasolini che giunge dopo la cacciata del quarantanove non c’è più la volgarità del Belli ma la mascolinità dei mercati di Trastevere, il brulicare ancora stordito dalla guerra ma già speranzoso di nuovo. Sono gli anni di uno sforzo da parte del poeta di penetrazione e inserimento nel mondo intellettuale. Nella scuoletta di periferia si guadagna il pane, ma nella scrittura trova alimento fragrante per lo spirito. Il cinema verrà dopo: gli anni cinquanta, per Pasolini, sono quelli della poesia e della prosa in lingua, gli anni delle borgate: Le ceneri di Gramsci ma anche Ragazzi di vita; l’esperienza di letture esaltanti a suggerire di tentare, ma anche il retaggio del romanzo storico a indicare vicende spesse di esistenza: il lumpenproletariat romano costruisce intrecci assolutamente poetici, vivi della luce di albe e tramonti sull’urbe tinti di spavalderia inquieta e romanza; Roma la città eterna del Palazzo e delle lucciole, dei prati fetidi e della sopravvivenza è tutta lì, nelle gesta del Riccetto e nella tragedia di Tommaso.
Le Ceneri di Gramsci riguardano invece il poeta e il suo destino interiore, le sue ferite ideali e ideologiche, la sua verve ritmica e lirica, i suoi squarci volanti sul mondo del Novecento postfascista, la sua tenuta di uomo che ha perso il fratello Guido per la libertà d’Italia, che ha subito un esilio per uno sbaglio di prospettiva, che ha creduto nel male.
A Roma in quegli anni Pasolini si muove solo come un gatto del colosseo, ma sono anche i tempi preparatori dell’esordio nel cinema, della notorietà scandalizzante, degli incontri letterati e letterari, della revanche.
Il soggetto però rimarrà tale e quale il personaggio friulano, indipendente e aggrappato alla madre Susanna, sacrificio del proprio ego fitto di arte e di popolare alterità, nutrimento di una fantasia sdoppiata.
Qualcuno ha detto che l’anima umana è come le nuvole, non c’è verso di farla stare ferma. L’anima di Pasolini in quei tempi ruggiva di solitudine e rapporti, imperversava nell’urbanità scellerata e notturna delle borgate. Ma era anche umanissima, lo vedremo in filmati e fotografie fra quelle baracche dialogare con gli abitanti, ospite cristiano della disperazione colta negli attimi di una pellicola, con un impermeabile borghese a parlare di vita ai ragazzi di vita.
Nella grande città i primi tempi non si muoveva come a casa sua, cercava contatti e lavori pomeridiani affini alla sua grande passione: la letteratura. Scriveva versi, prose, sceneggiature, le proponeva ai primi amici colti che incominciava a incontrare nelle trattorie di Trastevere o fuori porta. Fra i ragazzi di vita presto Pasolini si fece conoscere come il loro scrittore. Fu l’antiborghese per eccellenza, l’uomo non del popolo ma nel popolo, il colto fra i discepoli, il Socrate della polis che lo ucciderà.
Taluno è saggio e ammaestra il popolo, e i suoi frutti sono durevoli, leggo nell’Ecclesiastico biblico a 37,23: Pasolini si fece interprete integrale di questa massima, ne pagò integralmente le conseguenze. Ecco perché le sue preoccupate invettive contro l’industrializzazione sono ancor oggi attualissime di lì a quarant’anni dalla sua morte per noi qui a pensarlo asfissiati da gas e rumori senza più dei ma con un dio certo: la moneta corrente. Pasolini anticipò questa tragedia con il suo sacrificio personale, perché, anch’egli uomo, sbagliò e pagò del suo. Parlare di lui oggi è una pena ma non possiamo dimenticarlo perché Pasolini è il Novecento, la terza rivoluzione industriale, l’Italia che sulla questione meridionale si spacca in due. Nel settantacinque il poeta lo sapeva, lo diceva, gli altri non capivano e lo processavano, lo isolavano e infine, come Cristo, lo sacrificavano.
Ora mi si contesterà la sua omosessualità: certo che era un perverso, mai perverso come il suo tempo. Siamo figli del nostro tempo. La storia è fuggevole come un saluto alla stazione, scrisse il futurista Ardengo Soffici: come pare adattarsi alla tristezza del nostro autore che parte dalla stazione di Casarsa della Delizia con la madre Susanna Colussi, verso la Roma delle novità e dello struggle for life.
Forse Pasolini sulla spiaggia di Ostia, davanti a Pelosi e alla morte, finalmente pensò alla sua mortalità. In un flash rivide la madre Susanna e la sua vita. Parma, un viale e il riso di mia madre, scrive nel poemetto L’Italia nell’Usignolo della Chiesa cattolica. Forse nel riso o nel pianto di Pelosi rivide portici padani e il volto dell’unica donna che volle amare. Poi non capì di morire ma capì la perfezione della letteratura, che è l’immortalità.
La vita è un eterno ricominciare da capo, scriveva: chissà se seppe nell’attimo di morire che non era vero, che la vita costruisce ideologie che non muoiono, che la vita è noi stessi e azioni anche imperiture. Di certo non pensò in quell’attimo il motto che David Maria Turoldo porrà in testa ai suoi Canti ultimi desumendolo dalla canzone All’Italia di Giacomo Leopardi: la vita che ti diedi / te la rendo/ nel canto; forse perché tutta la vita di Pasolini fu un canto d’amore, la morte sola fermò il suo pensiero eccitato, trasbordante di sinapsi, nobile di idee. Nel prato di Ostia si compì il sacrificio della parola ultima, il sacrificio del verbo di un poeta dell’umìle Italia, dei poveri, dell’evangelico affanno di testimoniare il disagio, le ferite, i traumi, ma anche la bellezza, l’orgoglio umano, l’estasi letteraria, il mistero artistico, il cosmo e il suo infinito e irreale trangugiarci.
Negli anni romani Pasolini divora esperienze e commozioni, si fa e si disfa per capire, si immola all’arte ed alla rappresentazione degli altri come rappresentazione dell’io, perché il suo io sono gli altri, egli è tutta vita, tutto movimento, tutto uomini e cielo stellato delle notti brave di periferia, pasto del mondo periurbano.
Gli anni cinquanta sono il prodromo preparatorio del Pasolini regista, e non possono essere che letterari: poesia e prosa, passione e rigore, testualità e grammatica come perni della cultura d’occidente, punti di slancio per qualsiasi comunicazione d’autore. Pasolini a Roma si fa centro d’interesse per ognuno che voglia interpretare la vita dell’uomo, la storia della cultura nella città del Palazzo e della Chiesa, i due perni essenziali della vita pubblica civile e internazionale, la politica e la carità intrecciate nell’idea moderna dell’uomo italiano. Questi sono gli anni indicativi della tempra del poeta, perché quelli friulani sono la sua infanzia, il pre-trauma che lo introduce a nuove coscienze; anni di dialetti e di politica anche quelli, ma, per così dire, anni dentro il nido natale del Friuli: lì giocava in casa, conosceva tutti; dopo verrà la pura lotta, la guerra con se stesso per realizzare il proprio spessore di intellettuale e ancor prima di uomo, fino alla fine del 2 novembre 1975, il giorno della disfatta e della resurrezione insieme, verso un’immortalità pagata a smisurato prezzo: quello della vita. Già dal 1950, dunque, il poeta era imbevuto di vita; la assaporava nei risvolti più letterari, in sfrenate letture e, più reali, in scorribande notturne. Quell’uomo si istruì della Roma sottoproletaria e disperata, se ne fece una speranza per la propria sopravvivenza intellettuale; sfrenato, scandaloso, usava il sesso come una droga, lui che definì ancora nelle Ceneri il sesso una consolazione della miseria.
Non riuscì mai a divincolarsi dall’abbraccio di Susanna, la madre che lo accudiva fedele e gli sopravvisse ritirandosi in una casa di riposo della loro Casarsa della Delizia, il limbo perduto e da lei ritrovato ormai come larva senescente e addolorata, piccola donna del Novecento femminile e materno.
Pasolini era in rivolta contro il padre alcolizzato e ferito dall’omosessualità del figlio. Dai primi scontri con lui non riuscì più a riaversi, a scrollarsi di dosso quell’edipico rapporto con la madre Susanna che lo obbligava ad essere testimone continuo della propria esistenza, mai attore definitivo di un processo di distacco dalla famiglia. Pensare che di processi ne avrà tanti, penali e penosi per lui che era la mitezza in persona. Inutilmente qualche critico ostile lo ha definito violento (anche se egli si defini’ mite, violento, rivoluzionario). Pasolini era umanamente violento semmai. Usava cioè la violenza delle proprie forze intellettuali, la violenza dell’intelligenza libera e scattante contro il buio dei cieli romani e protervi.
Fu un uomo solo, certo; circondato da amici giovani o intellettuali, gli mancò l’amore, quello maiuscolo, per una figura femminile che non fosse Susanna, che gli desse l’alterità del gioco adulto, non la sterile dipendenza dalla famiglia originaria. Vagava solo in auto alla ricerca di sesso che fosse sentimento, trovava solamente sesso e volgarità, ostinandosi a far germogliare in quella la cultura, il popolo, il dialetto e la lingua. Ma non trovava lì sapienza. Solo chi ama conosce, scrive Elsa Morante all’incipit della sua lirica Alibi. Alibi è del 1958, un anno prima Pasolini scriveva ai primi versi del Pianto della scavatrice: Solo l’amare, solo il conoscere | conta, non l’aver amato, | non l’aver conosciuto. Dà angoscia || il vivere di un consumato | amore. L’anima non cresce più. Un rimando esemplare, perché Pasolini amò moltissimo, perciò conobbe moltissimo, ma non fu mai ricambiato. Allora ecco il narcisismo, il dolore innalzato a istituto, la letteratura come riflesso dell’ io che brucia, come scrive nelle Ceneri di Gramsci ancora. Di qual amore bruciò quell’io? Dell’amore del peccato come difesa dell’anima bambina, che non può crescere perché darebbe disperazione alla madre-donna Susanna, moglie di un padre che condannò il figlio per quei peccati stessi ad esser sempre figlio, mai uomo. Dicevo che è una pena scrivere di Pasolini; lo è perché la costante della sua esistenza è al culmine di quella crisi che tutti attraversiamo nel divenire adulti: restano i segni di cicatrice, le botte ma lui quella lotta la perse senza mai abbandonare il ring, pugilatore dell’antica Grecia alla quale gli altri appaiono βαρβαροι.