Cosa c’è di grande nel Gatsby di Baz Luhrmann

giugno 11, 2013 in Cinema da Elisa Masneri

grande gatsbyBaz Luhrmann torna sul grande schermo con un film ambizioso che segue la scia del suo maggior successo, Moulin rouge, per lasciarsi alle spalle il deludente Australia. Aiutato da Leonardo di Caprio, che aveva già lavorato con lui in Romeo+Giulietta, Luhrmann si confronta con uno dei romanzi più famosi della letteratura americana: Il grande Gatsby, scritto da Francis Scott Fitzgerald nel 1925, il ritratto più amaro e tragico dei ruggenti anni ’20 e del decadimento del sogno americano.

Ambientato a New York durante l’estate del 1922, la storia ci viene narrata da Nick Carraway (Tobey Maguire), giovane ed inesperto broker di Wall Street, che vive in una piccola casa confinante con l’enorme dimora di Gatsby, ricchissimo uomo dal passato misterioso e dal presente ambiguo. La cugina di Nick, Daisy (Carey Mulligan), e suo marito Tom Buchanan (Joel Edgerton), fedifrago ex giocatore di polo, abitano in una villa dall’altra parte della baia: la coppia incarna il decadimento dei valori della buona società americana, qualche anno prima che la crisi del ’29 spenga le illusioni di ricchezza della “generazione perduta”, come la definisce Hemingway.

Il romanzo, pur presentando almeno un paio di colpi di scena, non viene ricordato per la trama avvincente o l’intreccio mozzafiato: è nelle sfumature delle descrizioni, nei non detti e nei chiaroscuri della scrittura impressionistica di Fitzgerald che si cela la grandezza dell’opera. Non è dunque affatto semplice tradurre in immagini l’essenza decadente de Il grande Gatsby. Luhrmann però ha il torto di banalizzare e uniformare le sfaccettature della trama e dei personaggi, come se ci fosse bisogno di spiegare sempre tutto agli spettatori, altrimenti incapaci di approfondire in autonomia. Del resto, questa tendenza alla semplificazione e all’appiattimento sta diventando sempre più spesso il tratto distintivo dei blockbuster hollywoodiani.

Inutile negare che questo film sia stato strutturato come una potente operazione commerciale: Il grande Gatsby di Luhrmann è innanzitutto una vigorosa macchina da soldi, costata oltre 100 milioni di dollari e pensata per raggiungere un pubblico vasto e variegato. Il 3d, in questo caso, funziona da specchietto delle allodole e serve solo a mettere in risalto i lustrini dei titoli di testa e di coda, molto belli ed apprezzabili anche in 2d. All’interno dell’ottica commerciale vanno inseriti anche i costumi, perfetti, disegnati da Miuccia Prada, e soprattutto i gioielli Tiffany, che godono di alcuni primi piani mozzafiato che inevitabilmente puzzano di marchetta. Si inserisce nello stesso contesto la controversa e criticata colonna sonora: come in Moulin Rouge, Luhrmann sceglie la strada della contaminazione e l’atmosfera anni ’20 è sovvertita dalla colonna sonora hip hop, genere nato solo alla fine degli anni ’70. La produzione ha affermato che questa scelta stilistica è stata effettuata con il proposito di dare agli spettatori odierni lo stesso shock che all’epoca trasmetteva la musica jazz, altro genere musicale di dominio afroamericano. A me personalmente l’azzardo piace, ma non si può dimenticare che tra i produttori esecutivi della colonna sonora compare il Re Mida dell’industria musicale statunitense, Jay Z, che furbescamente inserisce nel film alcune sue canzoni, una brutta cover di “Back to Black” di Amy Winehouse cantata da sua moglie Beyoncè e altri artisti, come Lana del Rey, di cui è lui stesso il produttore.

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Accantonati gli aspetti più commerciali e “furbi”, questo kolossal ha senza dubbio delle qualità, soprattutto per tutto ciò che riguarda l’estetica. La parte visiva è nettamente più curata rispetto all’approfondimento e alla caratterizzazione dei personaggi: i già citati costumi, i make up, i set design sono stupendi, come la fotografia. Le luci, in alcune scene, sono davvero grandiose e riempiono l’immagine, mai piatta né minimale nemmeno alla fine, quando l’enorme dimora di Gatsby ormai vuota è riempita dalle ombre. Tre sono i colori principali del film: azzurro, verde e rosso. L’azzurro è sempre associato a Gatsby e crea un contrasto tra lo sfarzo di cui si circonda e la solitudine che in realtà lo attanaglia. Il rosso, con tutte le sue sfumature, è il protagonista della bella scena, che ricorda Almodovar per il gusto kitsch e la potenza dei colori, dell’afoso appartamento newyorkese dove si incontrano Myrtle (Isla Fisher) e Tom. Il verde è il colore della luce del molo della casa di Daisy, che compare più volte come protagonista dell’immagine e che risulta sempre a lei associato. È a questa luce verde che Gatsby tende le mani nella prima scena in cui compare sullo schermo, ripreso di spalle, mentre cerca di afferrare la scia luminosa dall’altra parte della baia. Questi tre colori principali si fondono sui volti dei protagonisti, unendoli, anche quando questi non si parlano: nel libro i dialoghi tra Gatsby e Daisy sono rarissimi, mentre nel film sono un po’ più accentuati. Questo sovverte un po’ l’idea di fondo del romanzo, che invece rimarca l’amore senza contatto con la realtà di cui è ammalato Gatsby, che è innamorato di Daisy in quanto perfetta esponente della classe sociale alla quale lui aspira. Nel film, la solita tendenza alla banalizzazione porta, in alcuni punti, a far sembrare il rapporto che lega Gatsby a Daisy una delle solite storie d’amore travagliate che riempiono i grandi schermi.

grande gatsby 2Ciò nonostante, Di Caprio è perfetto nell’interpretare, con una malinconia sempre presente, il naufragio del sogno americano, che in questo caso significa che il fine non giustifica i mezzi, nemmeno quando viene desiderato fortissimamente per tutta la vita: la ricchezza che Gatsby si crea con ogni mezzo è, nell’epoca dell’inizio del consumismo, la più grande virtù a cui un uomo possa aspirare. Carey Mulligan è fredda, distante e annoiata, come Daisy dev’essere, ma forse esagera. Tobey Maguire è bravo nell’interpretare Nick, se mai è il suo personaggio a non essere ben sviluppato, perché sembra che a Luhrmann interessi solo chiarire che dietro al personaggio di Nick si cela Fitzgerald. L’unico suo tratto che viene suggerito è il voyeurismo, ripreso anche nell’insegna dell’oculista che controlla e troneggia sulla valle delle ceneri. La regia ricicla qualche trovata da Moulin Rouge, come i rapidissimi movimenti di camera da montagne russe e alcune panoramiche cittadine, mentre svilisce le scene della corsa delle automobili, più adatte a Fast & Furious.

Tirando le somme, il film si colloca perfettamente nello stile appariscente e spettacolare del regista australiano, che ben si presta a rappresentare le feste e i lussi di Gatsby (memorabile la scena del primo party) e a creare un paradiso visivo adatto al testo di Fitzgerald, di cui però Luhrmann fatica a comprendere l’essenza e non riesce ad emozionare e convincere fino in fondo lo spettatore.

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