Il segno del potere dell’uomo sul corpo e nel cuore della donna: la mutilazione genitale
maggio 27, 2015 in Approfondimenti da Mario Baldoli
Se 130 milioni di donne e bambine mutilate vi sembran poche… ma forse sono 100.000, oppure 140.000, 35.000 in Italia, 3 milioni a rischio.
Donne che non sono numeri, ma i numeri sono necessari per comprendere l’estensione del fenomeno e indicare come muoversi, e tuttavia oggi esistono solo incerte proiezioni. Le mutilazioni genitali femminili (mgf) si conoscono dal punto di vista medico, sono una sconfitta del diritto e della civiltà, e restano soprattutto materia di studio per l’antropologia.
Si sa poco dei Paesi che le applicano, in testa l’Egitto con (forse) 27 milioni di donne, a seguire l’Etiopia con 23 milioni, e così via l’Africa sahariana e sub sahariana, seguita da alcuni paesi del vicino Oriente. Ma anche la geografia è incerta: alcune tribù non applicano la mgf, non esistono numeri per lo Yemen, il fenomeno si è esteso all’Indonesia, l’Isis lo applica dove arriva: si brancica nell’approssimazione.
Le mutilazioni esistono anche in Europa, di solito i genitori inviano la bambina nel paese d’origine facendola tornare escissa (la parola mutilata è un giudizio occidentale).
Giudizio negativo, ma indiscutibile, che si fonda sulla Dichiarazione dei diritti dell’uomo approvata all’unanimità dall’Onu, sulla dignità della persona e sui danni che la donna irrimediabilmente subisce.
Il convegno tenuto il 20 maggio alla Facoltà di medicina di Brescia – non riportato dai media e con solo una quarantina di presenti- ha schierato otto relatori tra giudici, ginecologi, politici, un’antropologa, coordinati dalla giornalista Anna della Moretta.
Tema dell’incontro: Verso l’abbandono delle mutilazioni genitali femminili: donne, culture, identità e salute.
Hanno parlato i giudici Graziana Campanato, Francesco Milanesi, Pier Luigi dell’Osso; i ginecologi e Donatella Albini e Enrico Sartori, l’antropologa Clara Caldera, i politici Diego Peli e Roberta Morelli, assessore alle pari opportunità.
Morelli ha ricordato come l’anno scorso, per primo, G9 ha affrontato il tema mgf in un incontro in palazzo Loggia. Aggiungo che i partecipanti a quell’incontro erano più numerosi e che il nostro incontro ha avuto tra i protagonisti non solo relatori provenienti dal mondo del diritto dell’antropologia, della ginecologia, ma anche una mediatrice culturale, l’unica persona in grado di portare la voce delle donne escisse perché l’unica che con loro può parlare.
Lo scopo del convegno di Medicina era lo stesso: fondere capacità e prospettive diverse. Scopo raggiunto, se ci si limita al dibattito, obiettivo concreto irraggiungibile se non si parla con nessuna vittima o si chiede al dibattito di trasformarsi in azione.
La mutilazione è un segno tangibile, irreversibile, della superiorità dell’uomo sulla donna.
È un problema antropologico che ha coinvolto la nostra cultura: se in una parte del mondo è abitudine, si dice che “fa parte della loro cultura”, e allora perché dobbiamo intervenire? Anche la bigamia da noi è un reato, e nessuno se ne preoccupa.
Ma la realtà vince la banalità. La ragazza che non si fa mutilare, non troverà marito, avrà contro la società d’appartenenza, vivrà nella vergogna. Così mutilare è un modo di proteggere e proteggersi, e anche il suo contrario: un trauma fisico e psichico irrimediabile. La donna non avrà piacere sessuale durante la sua vita, avrà spesso malattie all’apparato genitale, avrà nel cuore quella ferita. Chi lavora sul campo sa che convincere che la pratica è nociva non comporta automaticamente un risultato, che un intervento può riuscire se svolto contemporaneamente e in modo coordinato su una coppia, meglio se di tribù diverse (Clara Caldera).
La mutilazione è un problema giuridico: tutti i paesi, Somalia esclusa, hanno una legge contro l’escissione, eppure è tollerata, non ci sono denunce. In Italia la legge 9 gennaio 2006, n 7, punisce chi la pratica con una pena dai 3 ai 7 anni. Ma anche in Italia le segnalazioni e le denunce sono pochissime.
Duro l’intervento di Albini che ha mostrato sullo schermo i tipi di mgf, più o meno radicali, e come la funzione del medico, quando deve intervenire su queste donne, debba essere delicata, comprensiva, mentre il dialogo si svolge senza parole, con lo sguardo. E una proposta: dare la cittadinanza italiana onoraria ai bambini che nascono in Italia, come segno di accoglienza e cambiamento culturale.
Si sa che oggi la mgf è applicata in età sempre più giovane, la maggioranza la subisce tra 5-10 anni, ma è praticata anche su neonate, per il timore che, cresciute, possano resistere fisicamente. Tuttavia il numero delle escisse sembra diminuire. In particolare donne che vivono da una o più generazioni in Europa – assorbita la nostra cultura – spesso rifiutano di far mutilare le figlie. Verità indiscutibili, ma – io penso – non si può contare sull’immigrazione per diminuire il fenomeno.
Dagli interventi, purtroppo a volte ripetitivi, è emerso anche un possibile ruolo degli insegnanti che possono accorgersi di quanto è avvenuto, come i pediatri, ciò può servire per una denuncia, ma è evidente che tornare indietro è impossibile.
Infine resta l’evidenza di una sconfitta civile e di un mondo che parla un’altra lingua.