L’Università del Potere

febbraio 25, 2015 in Fuga dall'Italia da Adriana Ziliani

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Un’ala dell’università di York

Mi sono laureata in materie umanistiche all’Università di Venezia, ma prima avevo fatto un Erasmus in Inghilterra. L’Erasmus è stato per me decisivo. Per imparare la lingua e perché il mio tutor mi ha avvisato della possibilità di un dottorato. Gli avevo proposto un argomento: Gli italiani in Inghilterra durante il fascismo. L’ha approvato e mi ha indirizzato ad un collega importante, uno i cui libri sono tradotti in molte lingue, tra cui l’italiano. 

Tornata a Venezia, mi sono laureata e ho tentato subito due concorsi, a Milano e Perugia. C’era tanta gente che provava senza successo da anni, mentre circolavano i nomi dei vincitori. Ogni viaggio ad un’Università per un concorso comporta delle spese: il treno, l’albergo, la colazione ecc. In quel periodo pensavo che avrei fatto la commessa alla Coop, in fondo non è un brutto mestiere e si può vivere dignitosamente.

Allora ho puntato sull’Inghilterra. Ma non avevo soldi, e viverci costa molto. Ma circa vent’anni fa, l’Università di Venezia dava una borsa di studio per un anno di dottorato all’estero. Faccio l’esame, naturalmente si sa già che vincerà il figlio di un professorone. Invece nella commissione c’è un incorruttibile. Probabilmente grazie alla sua energia, guadagno la borsa di studio.

Quindi a Londra! Un dottorato di tre anni alla prestigiosa London School of Economics, con quel professore, un americano terribile, che ha accettato il mio progetto. Non solo mi costringe subito ad usare per ogni cosa il computer (allora in Italia ci si limitava a scrivere in word) ma critica senza pietà il mio inglese scritto (mi fa riscrivere molte pagine) arrivando a rifilarmi un manuale di retorica. Lo maledicevo. Ora gli sono grata e siamo in ottimi rapporti.

Intanto studio, studio in modo matto, come dice Leopardi, ma non disperatissimo.

Finisco il dottorato e un editore mi pubblica la tesi. Faccio domande per delle borse di studio: ogni anno ne vinco una, in università sempre diverse.

In Inghilterra non esistono raccomandazioni, almeno nel settore dell’Università, e non c’è differenza di nazionalità, le Università scelgono la/il migliore. Quando qualcuno mi passa davanti è perché ha più pubblicazioni e un background migliore del mio. Corrono così quattro anni. Sempre appesa a un filo, ma con un arricchimento di esperienza fantastico. Partecipo a congressi, conosco professori bravissimi, pubblico qualche libro, scrivo su riviste. Ogni anno mi sento più forte.

Vinco un concorso per un anno al King’s College come Research Yellow, poi come Visiting Lecturer al Birkbeck College e all’University College London, e come Research Fellow a Oxford, fino al posto a tempo indeterminato alla York University, dove ora sono Senior Lecturer.

Passati quasi vent’anni in Inghilterra, dove mi sono trovata molto bene per la correttezza e il funzionamento delle Università, la mancanza di baronie e arroganza, la socialità e l’amicizia con i colleghi, vorrei tornare in Italia.

Per capire quello che mi aspetta, partecipo quindi ad alcuni congressi, ed entro in un altro mondo. Bravi studiosi con buone pubblicazioni, ormai cinquantenni, vivono con lavoretti saltuari mal retribuiti (una voce per un’enciclopedia, la storia di un’azienda, part time in una biblioteca di paese ecc), pubblicano le loro ricerche a proprie spese, si detestano e sgomitano per avere l’onore di strisciare davanti al cattedratico, l’Ordinario: il nome è un programma.

L’ultima strisciata che ho visto è una lite per guadagnarsi il merito di andare a prendere l’Ordinario in stazione. Di solito l’Ordinario è un vecchio che a suo tempo ha strisciato e i cui libri – rigorosamente obsoleti – sono pubblicati perché li adotta nei suoi corsi. Inoltre l’Ordinario va raramente in Università, il lavoro lo fanno i suoi associati e i ricercatori (il che è vietato per legge).

In Italia chi lavora in un’università di solito si è laureato nella stessa, non ha quindi un reale arricchimento di esperienza.

Ogni volta che entro in contatto con un’Università italiana la mia delusione è totale, tutto mi pare incredibile: computer, stampanti, fotocopiatrici che mancano o non funzionano, professori che non esistono, politici che si mettono in mostra inaugurando lezioni, nessun uso di altri strumenti d’insegnamento al di là dei libri, orari incerti, l’inconcepibile quarto d’ora accademico, la presenza saltuaria del professore ai colloqui settimanali, le attese sadiche che fa subire agli studenti, l’arroganza con cui li tratta. Non bastasse, un ricercatore italiano percepisce mediamente la metà del mio stipendio.

C’è anche una legge-buffonata sul Rientro dei cervelli: nel migliore dei casi, hai un posto a contratto per tre anni, poi si vedrà.

Eppure gli studenti italiani sono più preparati e più autonomi di quelli inglesi. Le nostre scuole medie e superiori funzionano meglio. Insomma, in Italia torno spesso, ma in vacanza.

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