Carlo Ossola, «Autunno del rinascimento, “Idea del Tempio” dell’arte dell’ultimo Cinquecento»

maggio 26, 2014 in Recensioni da Laura Giuffredi

ossola“La Dialettica”, dipinta, con le altre virtù, da Paolo Veronese in Palazzo Ducale a Venezia, tiene la tela di ragno, perfetta nella sua geometria, tra le dita delle mani, le braccia sollevate sopra il capo; ma di quella trama non guarda il centro, bensì l’ “oltre”, lo spazio infinito che sopra di esso si apre.

E’ l’immagine di copertina di questo saggio (Firenze, Olschki, 2014) e ben ne esprime in sintesi la tesi, essendo lo sforzo dell’autore volto a condurci per mano attraverso il “folle volo” che il Rinascimento al tramonto tracciò nel firmamento di una nuova età, quella del tardo ‘500 annunciante il Barocco.

Si tratta della seconda edizione, ampliata, del volume già pubblicato da Carlo Ossola nel 1971, ora affiancato da un saggio del 1975 (Manierismo e barocco) e da una riflessione del 1991 (“Autunno del Rinascimento”: breve storia di un’idea).

La prefazione di Mario Praz ci mette oggi sull’avviso: attraverso l’esame della trattatistica (e non solo) della seconda metà del Cinquecento, che Ossola ci squaderna in dettaglio, scopriremo come la varietà, il movimento, la “nobile negligenza”, la discordia concors diventino progressivamente, negli artisti (pittori, scultori, architetti e poeti) nonché nei critici loro contemporanei, le nuove parole chiave di un’età in trasformazione.

Vertunno, che sa cambiar figura per entrar nelle grazie della ninfa Pomona, ne è la metafora: metafora di un Manierismo che si interpone tra l’apollineo Rinascimento e il dionisiaco Barocco; l’arte, da “scimmia della Natura”, disciplina meccanica, passa ad essere facoltà dipendente dalla filosofia (e dalla religione), libera elaborazione del reale.

Grottesche, geroglifici, imprese, “capricci” popolano pareti e tele, giardini e pagine di poeti: “chimere” le definiva Danti.

Un’inquietudine che peraltro ha già radici nel Rinascimento e darà i suoi frutti migliori nel Seicento.

I letterati cercheranno la “pittoricità” e la “musicalità” della pagine, gli artisti la suggestione poetica, la figura retorica, secondo la formula “ut pictura poesis”: non più mera analogia, ma stretta correlazione tra i due termini. Poesia e letteratura hanno il comune fine di imitare la natura, ma con “abito” diverso (il “dentro”, concetti e passioni, è imitato dalla poesia, il “fuori” dalla pittura).

Ma la dottrina tridentina instaura l’opposizione tra Teologia e Poesia, riconoscendo il pittore-storico più importante del pittore-poeta, la cui libertà inventiva si potrà esprimere nell’ambito di quelli che Gilio definirà “ghiribizzi”: arabeschi fantasiosi, fino all’inverosimile ed al mostruoso.

E Tasso sarà l’ultimo a preoccuparsi ansiosamente della necessità di un’unità garantita nell’opera, nonostante la varietà, ammessa come valore aggiunto.

L’idea degli artisti, sottoscritta dai trattatisti, è ormai estendersi ad abbracciare tutto il descrivibile, pur se con la volontà ultima della “reductio ad unum”. E’ per questa intenzione, latente o palese, che possiamo, spiega Ossola, distinguere l’autunno del Rinascimento dalla pluralità provvisoria del Barocco.

Si esprime comunque una realtà sempre più inquieta e un’arte sempre più “gremita” di forme e soggetti; e, nel nuovo cosmo che emerge, l’uomo non è più il centro dell’universo, ma forma tra le forme, mutazione tra le mutazioni.

Tra le tradizionali categorie dell’ut pictura poesis si privilegia non più l’elocutio (campiture, inflessioni stilistiche), ma l’inventio (schizzo iniziale, abbozzo, elemento peregrino).

L’invenzione deve generare meraviglia, e d’altra parte la materia ha in sé infinite forme che sta all’Idea dell’artista evocare (come già Michelangelo intuì nei suoi “Prigioni”)

Tutto ciò, tuttavia verrà irregimentato dalla precettistica tridentina, in base ad una ferrea dispositio, che ha come scopo la persuasività presso la massa dei fedeli.

Paleotti affermava che l’arte tanto più è nobile quanto più è fedele alla fonte approvata dalla Chiesa, e che l’artefice deve astenersi dall’interpretare.

Alla sicura “sprezzatura” rinascimentale, deve quindi sostituirsi il “ragionevole discernimento” del cristiano che, in una realtà incrinata e sfuggente, fa del senso del limite, del “verisimile”(ciò che rimane nella misura, nell’opinione corrente), il segno di ossequio alla certezza che trascende e di discernimento tra le esperienze dell’incerto

Eppure questa cultura di transizione sentirà pressantemente questo limite, e per diverse vie vorrà valicarlo: nell’astrazione intellettuale, nell’appartata e solitaria elaborazione di un primo schizzo, disegno interno, espresso in libertà, in un cosmo caotico di soggetti i più disparati.

Quel che conta è il nuovo, lo stupefacente: ogni convenzione di decoro cade di fronte alla necessità di essere nuovi o abnormi (come i Giganti di Giulio Romano a Palazzo Te).

E’ l’arte degli asindeti e delle enumerazioni come elementi di movimento e moltiplicazione, come infittirsi di forme a saturazione dello spazio.

La bellezza è espressa dall’artificio, che tutto può

E’ tutta una gara a raccogliere dati, divulgare resoconti di viaggio, far divenire “domestica” una natura inquietante, riproducendola in figure e disegni. Lomazzo conclude che l’arte crea come la natura, è una libera produzione di forme.

Quest’ epoca inquieta, con le sue invenzioni, “chimere”, “ghiribizzi” e “paradossi”, ha dunque lasciato la “casetta murata in sul vecchio” del Tasso per gli “stupendi palagi” del persuasibile, ed ora, entrandovi, sente tutta la provvisorietà e deformità della scena: ma con un brivido di piacere.

Condividi: Email this to someoneShare on FacebookTweet about this on TwitterShare on Google+Pin on Pinterest