La bellezza del mondo
gennaio 11, 2019 in Racconti e poesie da Paolo Merini
Il turista che percorre il promontorio da Pietre Strette (dove le streghe facevano i sabba) verso Portofino, seguendo il sentiero intermedio tra San Fruttuoso e Portofino, quello che, scendendo a Base 0 mostra gli scorci più entusiasmanti, incontra quasi subito una piccola lapide scolpita in una roccia tra i lecci: “Qui la bellezza del mondo apparve per l’ultima volta a Marco Bruzzone, pittore, 1992”.
Chi passa pensa all’uomo che lì veniva a dipingere e che, davanti alla tela, col pennello in una mano e la tavolozza nell’altra, fu fermato dalla morte mentre ritraeva quella scena di luce tra mare e collina. Una morte invidiabile.
Per me è diverso, c’è anche una stretta al cuore passando di lì, perché io quel pittore l’ho conosciuto. Facevo il liceo e mi trovavo in vacanza a Courmayeur. Di solito passavo il tempo in lunghe passeggiate con un ragazzo che era in albergo con me, ma un giorno lui si è fermato a filare con mia sorella.
Io allora sono andato solo, era un pomeriggio, e ho puntato verso un paese dove non eravamo mai stati, Dolonne. Non per caso, solo perché a me piace andare dove non va nessuno, leggere i libri che non legge nessuno, e via di questo passo.
Si arriva alla periferia di Courmayeur nella direzione del Dente del Gigante, si supera il ponte sulla Dora e poi una piccola strada in terra battuta comincia a salire verso un gruppo di case. Un’ora di salita e ero a Dolonne. Case povere lungo la strada e nient’altro, pensavo, ma ecco che ci vedo lo studio-mostra di un pittore. Entro.
Vedo subito Bruzzone, un uomo atticciato e tranquillo, probabilmente sui cinquant’anni, seduto su una panca, la schiena contro il muro, avvolta in un giaccone di lana e baffi di colore, non dipingeva, riposava con gli occhi semichiusi che ha subito aperto per la novità del mio ingresso. In effetti che ci faceva un pittore a Dolonne, dove non passa mai nessuno?
All’epoca io avevo la velleità di essere tutto: un artista e un critico d’arte, un filosofo e un cinefilo, uno scrittore e un appassionato di fisica, non c’era campo dello scibile – esclusa la musica, che mi vedesse senza la presunzione di sapere. Col passare degli anni, visto che non ero capace di fare niente, mi sono ridimensionato, ma non era quello il momento. Nello specifico, oltre che critico d’arte, mi dilettavo di scultura con la creta e la pietra, quindi subito mi sono sentito nel mio ambiente, anche se ogni ambiente poteva essere il mio.
Abbiamo parlato. Lui era di Camogli, ma veniva da qualche anno a passare i mesi estivi a Dolonne: silenzio e fresco. La gente che si affolla in riviera d’estate gli dava ai nervi. A Camogli, la Ca’ delle mogli, come dice l’etimo del nome, aveva lasciato una nipote che gli vendeva i quadri. “I doganieri mi conoscono – diceva – non c’è problema per portarli all’estero”.
Ho ammirato alcune nature morte, un monte con mucche al pascolo, una donna coi capelli grigi e il seno cadente; dietro un’alba abbacinante.
Da pseudocritico d’arte credo di avergli fatto qualche domanda cretina a cui lui rispondeva tranquillo. Poi mi ha invitato a una partita a dama. Era il suo passatempo preferito, e forse il suo maggiore impegno estivo.
Dopo qualche partita, gli ho chiesto se potevo copiare con la creta qualche suo quadro. Mi ha detto di sì, forse perché poi avremmo giocato a dama. E io ci sono andato per qualche giorno, finchè ho finito il primo pezzo, una donna dal piccolo seno si era materializzata nella creta. Lui mi ha fatto i complimenti. Io gli ho chiesto chi era quella donna dal sorriso smagliante appesa al muro.
“Mia moglie – ha detto lui –mi ha lasciato due anni fa”.
“Per quello vendi il suo quadro?”
“Ne ho una decina, me ne restano sempre tanti”.
“Quanti ne hai venduti finora?” ho detto io, che ritenevo compito della mia vita distruggere la diplomazia ed essere scortese come un vero artista.
“Non so, pochi” non era contento. Chissà con chi è andata, ho pensato.
Tu hai visto sul promontorio di Portofino quella lapide. Sapevo che ci saresti passata con tuo marito. Mi hai detto che ho attraversato la tua mente come un lampo. E io ti ho detto: se un giorno tu dovessi pensare di me quello che è scritto sulla pietra: la bellezza del mondo gli apparve per l’ultima volta, ricorda che quella bellezza eri tu, col tuo sorriso e i tuoi baci, i capezzolini e la fichina.
Fu la cameriera che faceva le stanze alla mattina a gettare il pezzo di creta dalla finestra.