Il “sopravvivere dei nomi alle cose”: note dal dibattito sulla politeia biblica
luglio 4, 2018 in Approfondimenti da Marco Castelli
«quia auctoritas cereum habet nasum, id est in diversum potest flecti sensum, rationibus roborandum est» (Alani de Insulis, De fide catholica contra hereticos sui temporis praesertim albigenses)
[«perché l’autorità ha il naso di cera, cioè che può essere piegato in differenti direzioni secondo le tesi da sostenere»]
«Se è stata una cosa difficile e mirabile […] l’aver potuto gli uomini per lunghe osservazioni, con vigilie continue, per perigliose navigazioni, misurare e determinare gl’intervalli de i cieli, i moti veloci ed i tardi e le loro proporzioni, le grandezze delle stelle […], i siti della terra e de i mari, cose che, o in tutto o nella maggior parte, sotto il senso ci caggiono; quanto più meravigliosa deviamo noi stimare l’investigazione e descrizione del sito e figura dell’Inferno». L’incipit di questo scritto può sicuramente far pensare all’opera di un qualche religioso medievale attento alla salvezza dell’anima e rispettoso della Sacra Rota. Più strano è invece realizzare che è opera del primo vero scienziato moderno: Galileo Galilei, intento ad analizzare attentamenti, davanti all’Accademia fiorentina, secondo principi fisici, i canti danteschi: «Non solamente è impossibile, se vogliamo sfuggir la rovina di tutto l’Inferno, che le parti superiori manchino di sostegno, ma è ancora ciò contro l’istesso Poeta …». La statica – chiaro – anche all’Inferno non si discute.
Se possiamo immaginare il fondatore della scienza moderna scrivere oroscopi – si dice spesso sbagliati – per motivi economici (da Brecht Galileo è d’altronde un eroe tragico), meno facile è giustificare questo studio dantesco, che applica le teorie scientifiche ad un racconto su d’un luogo la cui esistenza è quantomeno considerata improbabile dalla maggior parte degli studiosi contemporanei. Possiamo quindi iscrivere questo testo nel novero di quegli scritti “strani”, di primo acchito difficilmente comprensibili, che quando non fanno indignare fanno sorridere, rendendoci consci tanto dei vari “régimes d’historicité” come del fatto che le concezioni filosofiche siano più resilienti all’innovazione di quanto non si pensi.
É questa una delle chiavi di lettura nelle quali possono essere inquadrati gli interventi raccolti da Lea Campos Boralevi e Diego Quaglioni nel volume Politeia biblica, Olschki ed, pubblicazione degli atti del Convegno su «La letteratura politica sulla ‘Respublica Hebræorum’ nell’età moderna», svoltosi a Trento dal 15 al 17 ottobre 1998.
I due curatori notano infatti come «[d]a un punto di vista diacronico, la permanenza della politeia biblica come riferimento cruciale nel pensiero politico, e non solo in quello medievale, porta a rimettere in discussione alcuni concetti acquisiti nella tradizione storiografica, che vede nella “secolarizzazione” crescente, caratteristica della politica moderna. Infatti, il passaggio da un’epoca all’altra dovrebbe accompagnarsi ad una influenza decrescente del riferimento Scritturale. Non solo nel XV e XVI sec. ma anche e soprattutto nel XVII – quindi ben dentro l’età moderna – assistiamo invece ad una vera e propria esplosione dei dibattiti incentrati sulla politeia biblica.
Seguendo questa intuizione vengono quindi analizzati gli utilizzi dei riferimenti biblici agli istituti giuridici e politici ebraici dai pensatori moderni e contemporanei, da Martin Bucer a Martin Buber, passando per Althusius, Bodin, gli Encyclopédistes e gli intellettuali olandesi del Seicento, tra i quali, ad esempio, Spinoza. Si traccia così una linea cronologica che unisce vari autori e diverse aree geografiche, permettendo di rintracciare la persistenza nei secoli delle stesse espressioni, utilizzate nei frangenti storici e politici più diversi e per sostenere visioni politiche contrastanti
Di particolare interesse è l’utilizzo politico nel XVI e XVII secolo che viene fatto dei passi biblici che adombrano le forme istituzionali della “Respublica Hebæorum” e che vengono interpretate differentemente dai diversi pensatori, nei diversi luoghi geografici, per sostenere tanto la monarchia quanto la repubblica. Se infatti Jean Bodin (1530-1596) utilizza, con alcune varianti nello sviluppo del suo pensiero, il dato scritturale per sostenere una forma di governo monarchica ed assolutista, diverse saranno le conclusioni che, dagli stessi passi, trarrà Althusius (1563-1638). Il pensatore tedesco mise in discussione infatti la possibilità di un potere assoluto del re (sciolto cioè dalle leggi civili) sbarrando la strada a qualsiasi tentazione anche moderatamente assolutista e sviluppando la sua visione della sovranità che tende, a differenza di quella bodiniana, ad una «spersonalizzazione del potere».
Il riferimento diventa imprescindibile anche per gli habitus culturali delle due Rivoluzioni del Settecento, anche se in modo molto diverso. Se nelle voci dell’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert si può vedere lo sforzo dei philosophes «di riportare anche l’essenza di questa cultura dentro un quadro di valori e significati non diversi, filosoficamente, da quelli dell’Occidente cristiano» ad un oceano di distanza, nell’America rifugio dei puritani, i riferimenti alle istituzioni politiche presentate nella Bibbia si fa sempre più insistente nei sermoni dei ministri di culto. «Rispetto a molti pamphlets politici che avevano interessi più concreti e contenuti pragmatici, i problemi trattati da questi sermoni riguardavano il ruolo di Dio negli affari umani, la natura dell’uomo, l’origine e lo scopo del governo, in breve la natura del bene pubblico, e offrono quindi una prospettiva diversa sulle concezioni etiche, sociali e normative dell’America del XVIII secolo». Proprio grazie all’analisi di queste particolari fonti è possibile ricostruire la grandissima influenza, quantomeno retorica, dell’immagine della popolazione ebraica nell’immaginario americano. I coloni infatti, vedendo loro stessi come pellegrini, scopritori nel nuovo mondo, svilupparono infatti l’idea che la migrazione puritana fosse figlia della volontà divina di eleggere un nuovo popolo: gli americani, ça va sans dire. Poteva quindi a buon diritto scrivere Herman Melville nella sua novella White Jacket (1850) «We Americans are the peculiar, chosen people, the Israel of our time; we bear the ark of liberties of the world […] God has given to us, for the future inheritance, the broad domains of the political pagans.».
Come scriveva Beccaria ne Dei Delitti e delle pene, «le nozioni […] si cambiano colle rivoluzioni del tempo che fa sopravvivere i nomi alle cose»: il compito sempre più difficile per lo storico del diritto e per lo storico delle istituzioni (politiche e non) è quindi quello di riuscire a distinguere quando le parole ed i riferimenti si staccano pian piano, come la corteccia invecchiata dalle betulle, dai loro significati originari, per essere utilizzate in altri contesti o costituire humus per nuovi alberi. Quando i riferimenti si riferiscono ad un significante preciso, un riferimento magari autoritativo e quando invece i concetti e le citazioni vengono utilizzate come bandiere sgualcite o dei vestiti fuori misura, richiamo retorico ed esemplare. La particolarità e l’interesse della vicenda del richiamo alla Politeia biblica sta forse proprio in questo suo essersi scissa dal richiamo meramente storico e teologico, e nell’essere divenuta un significante di un tipo di repubblicanesimo capace di entrare in dialogo con le esigenze mutevoli dei tempi, dalla Francia di Luigi XVI, alla Germania di Hitler.