Ariosto sul palcoscenico: meraviglia, farraginosità, autorità
novembre 29, 2017 in Approfondimenti, Letteratura, Recensioni da Marco Castelli
«Quell’io che tra più dotti e più canoriCigni del Po famoso il volo alzai,
E in accenti dolcissimi cantai
Le donne, i cavalier, l’arme e gl’amori»
Siamo nel 1623, ad Ancona, ed è Ariosto che ha fatto la sua comparsa sul palcoscenico: «Fu dunque fin da principio […] conosciuto costui essere l’Ariosto, il quale parve all’autore d’introdur per prologo della sua tragedia, sia perch’ella da quello ha i suoi primi fondamenti». Così, con l’intervento di questa “dramatis persona”, si apre Il Medoro incoronato di Prospero Bonarelli della Rovere, uno dei molti autori che s’impegnarono raccogliere idealmente il “miglior plettro” lasciato dal poeta ferrarese ai posteri per lo sviluppo delle sue storie.
“Ariosto” più “recitazione”: per molti l’equazione si completerebbe da sola con il nome di Ronconi. Una funzione che si complica invece di infinite variabili alla fine della lettura del volume Ariosto, Opera, and the 17th Century (Olschki, 2017) di Edward Milton Anderson. L’obiettivo della ricerca del compianto professore americano è quello di colmare il vuoto critico dell’analisi dei libretti basati sull’immaginario ariostesco, partendo dall’assunto dell’intrinseca “letterarietà” del mondo musicale che quindi deve essere studiato anche con gli strumenti delle discipline letterarie («the study of the musical world is also a literary discipline.With Ariosto as the source, the idea is especially appealing – and fruitful»). Il libro, curato nella veste grafica ed impreziosito anche da molte riproduzioni di stampe d’epoca, è corredato da un CD nel quale è riprodotta «the fullest bibliographical account to date of Ariosto in musical drama from 1609 through the end of the eighteenth century», permettendo di leggere direttamente dei testi altrimenti introvabili.
«L’ottava rima cantava», scriveva il De Sanctis, e quella dell’Ariosto di sicuro in maniera particolare tanto che già Montaigne notava, relativamente ai versi dell’Orlando, come «toute l’Italie les a dans la bouche». È infatti tutta l’Italia che fin dal Cinquecento canta l’Ariosto: se la prima edizione dell’opera si è avuta nel 1516 è già nell’anno seguente che il compositore mantovano Bartolomeo Tromboncino vi si ispira per comporre un madrigale da intonare nelle corti principesche. D’altronde anche gli Improvvisatori, come i cantastorie, non attesero molto ad inserire nei loro repertori delle stanze di Ariosto, diffondendo così i versi di questo poeta nei livelli meno colti della popolazione.
Sarà tuttavia nel secolo seguente che, intrecciandosi con lo sviluppo dei vari stili musicali, lo sviluppo di storie tratte dall’Orlando furioso fiorì, fino a diventare un riferimento secondo solo alle Metamorfosi di Ovidio: l’Orlando Furioso era una “canonical source” di materiale scenico e personaggi facilmente caratterizzabili grazie alle loro «private monomanie» (Cavazzoni). La straordinarietà del materiale era d’altronde resa ancora più congeniale alla riproduzione per il susseguirsi di scene che potevano essere estrapolate dall’intreccio generale dell’opera: «Fra tante battaglie e duelli e incanti e paesaggi non trovi mai ripetizioni o reminiscenze, perché ciascuna cosa è come un individuo perfettamente distinto e caratterizzato. Quadro, piccolo o grande che sia, prende la sua movenza e il suo colore dalla cosa rappresentata, e però ciascun quadro è in sé distinto e compito, condotto e disegnato negli ultimi particolari» scriveva il De Sanctis.
La quantità e la diffusione delle interpretazioni porta Anderson a sviluppare una periodizzazione generale degli anni dal 1609 al 1699, permettendo così una visione del complicato intreccio tra esigenze letterarie (dalla Camerata dall’Arcadia), musicali (dal madrigale all’aria tramite lo stile recitativo) e di gusto del pubblico.
Il primo di questi periodi (1609 – 1635) è caratterizzato dall’attenzione all’Ariosto come autorità capace di oltrepassare i canoni aristotelici (l’unità del racconto) e come maestro della “meraviglia”. Questa meraviglia si sostanzia nell’”inatteso” e nell’”abbagliamento”, «often expressed in the link between magic and the unexpected», che sono le senazioni che i librettisti tentano di riprodurre sulla scena sul modello ariostesco.
Nella fase a cavallo del secolo (1642-1675) si ha un cambiamento nelle domande del pubblico ma nonostante ciò il classico – e per questo sempre latore di nuove risposte – di Ariosto viene ancora utilizzato dai nuovi compositori. A interessare non è ora la meraviglia, quanto la “farragine” (considerata sinonimo di “guazzabuglio”) che, con l’inserto di personaggi tratti dalle tradizioni popolari, riesce a rispondere alle nuove esigenze sia di pubblico che musicali. Gli spettatori chiedevano infatti un dramma più ricco di effetti visuali e contenenti maggiori “accidenti”, elementi cioè favoriti da un intreccio complesso. Inoltre in quegli anni, a livello musicale, si era sviluppato lo stile “arioso”, che si affianca, con una divisione di ruoli, allo “stile recitativo” del primo periodo. Lo “stile recitativo” fu quindi caratterizzato, verso la metà del secolo, quale luogo della narrazione, mentre “l’aria” assunse l’impegno di diventare lo spazio per le emozioni, permettendo di suddividere l’esecuzione e di gestire una maggiore complessità della trama.
L’ultimo periodo preso in considerazione dall’Autore, ossia il 1682-1699, si caratterizza per il tentativo di recupero della semplicità di stile originaria, necessitato anche dal clima arcadico ormai imperante. La ricerca di chiarezza favorì sia una divisione sempre più netta tra commedia e tragedia, separando i due momenti tramite l’espediente dell’”intermezzo” comico nel testo tragico come una codificazione sempre maggiore dei ruoli dei personaggi. Si ricerca meno il linguaggio della meraviglia quanto quella semplicità narrativa che d’altronde era stata anche uno dei motivi che avevano portato i primi librettisti ad avvicinarsi al testo ferrarese.
«Fondamento di fingere» sarà definita la narrativa dell’Orlando Furioso alla fine del Settecento: un termine che dice tanto l’autorità quanto l’ammirazione per il poeta di Ferrara che nel secolo si era coltivata e diffusa.
L’opera si conclude con un rimando al celebre libretto di Da Ponte Così fan tutte ossia La scuola delle amanti, che riprende – oltre che indirettamente racconti e nomi ariosteschi – anche quella «golden octave» tanto caratteristica del poeta ferrarese. La carriera di questo librettista si concluse alla Columbia University e fu in America che il librettista morirà, dopo aver acquisito la cittadinanza statunitense. Con il ricordo di questa migrazione questo godibile libro giunto d’oltreoceano si chiude, dopo averci restituito – oltre all’analisi musicologica e letteraria – anche la magia delle parole ariostesche immerse in una lingua straniera che, in un contesto non loro, come pietre nell’acqua, riacquistano colori e sfumature per noi spesso sbiadite.