La Siria raccontata da un testimone combattente – Intervista a Davide Grasso
gennaio 20, 2017 in Approfondimenti, Crisi, Interviste da Sonia Trovato
Davide Grasso, piemontese di 36 anni con un dottorato in filosofia e un consolidato attivismo politico, è rientrato da pochi mesi dopo un’esperienza da giornalista e combattente nelle YPG, le forze rivoluzionarie di protezione popolare che nel nord della Siria stanno resistendo all’Isis e agli altri gruppi reazionari. In occasione dell’incontro pubblico al Teatro San Carlino di Brescia, l’abbiamo raggiunto per farci illustrare il conflitto siriano e per farci lasciare una traccia della sua esperienza.
Innanzitutto ci terrei a capire com’è avvenuto il salto che ti ha portato a trasformare un impegno teorico per la causa del Rojava – che in molti trentenni, me compresa, si traduce al massimo nella condivisione di link su facebook o nella lettura di Kobane Calling di Zerocalcare – in un vero e proprio arruolamento contro l’Isis.
La prima cosa che devo specificare è che non sono l’unico: molte persone, da tutto il mondo, sono partite per il Kurdistan negli ultimi anni e non solo per combattere, ma anche per svolgere attività sanitarie, politiche o di informazione, attività che reputo tutte di eguale valore. Devo inoltre specificare che il mio impegno è stato in un primo tempo nel campo dell’informazione, poiché da ottobre 2015 a aprile 2016 ho fatto un reportage dalla Turchia, dalla Palestina, dal nord dell’Iraq e poi dalla Siria. All’inizio di maggio mi sono arruolato nelle YPG e ci sono rimasto fino a settembre. Mi sono sentito comunista fin dall’età di sedici anni, leggendo un libro sulla rivoluzione cubana, e quindi trovo normale concepire la battaglia per la libertà come una sola in tutto il mondo. È un dovere politico non rimanere indifferenti rispetto agli sforzi compiuti da altri popoli, essendo oltretutto sforzi maggiori rispetto a quelli che ci caratterizzano. Per cui, se già ero incline per formazione a prendere in considerazione culturalmente queste lotte, gli attentati a Parigi del 2015 mi hanno dato lo stimolo fondamentale per passare all’azione. Mi ha indignato profondamente vedere la mia generazione attaccata in un modo così brutale e predeterminato, nei luoghi e nelle forme di vita che più la contraddistinguono e nella città che più unisce la generazione dell’erasmus e dell’emigrazione italiana. Dalla morte di Valeria Solesin e delle altre vittime degli attentati ho avuto uno slancio decisivo per decidere di unirmi a questa resistenza, considerando che non ritengo i governi europei dei poteri adeguati a risolvere questo problema. Devono essere le popolazioni attaccate ad attivarsi e a portare solidarietà ad altre popolazioni attaccate.
Immagino che tu non abbia la benché minima fiducia nemmeno per il governo turco.
Il governo turco è un nemico dichiarato per tutti i popoli che vogliono la libertà. La Turchia ha un lato oscuro inquietante. Le vittime del Bataclan, di Nizza o di Berlino sono il frutto di responsabilità dei nostri stessi governi, ma soprattutto di quello turco, che ha supportato tutti i gruppi reazionari che agiscono in Siria e in Iraq e addirittura lo Stato islamico.
Come giudichi l’etichetta foreign fighter, che ti è stata attribuita spesso e che però viene usata anche per designare chi si arruola nell’Isis? Ho la sensazione che, venendo applicata indistintamente a una parte e all’altra, abbia un’accezione negativa e rimarchi una stranezza, dato che ti connota come straniero rispetto a una causa.
Certo, è così, ed è segno dei tempi che corrono. Sicuramente l’espressione ha una connotazione negativa nel giornalismo contemporaneo, che cerca di costruire un alone di sospetto verso qualsiasi scelta che non sia conformistica o che non rientri in una presunta normalità. Se però dovessi basarmi solo sulla traduzione letterale, non è affatto negativa.
Veniamo alla situazione in Siria, dove da cinque anni è in corso una sanguinosa guerra civile. Da un lato c’è il regime di Bashar al-Assad con gli alleati, dall’altra i cosiddetti ribelli, su cui però abbiamo informazioni vaghe e contraddittorie. Viene fatta la distinzione tra ribelli moderati e ribelli evidentemente meno moderati, senza che però venga chiarito quale sia il fattore discriminante. Del progetto curdo, invece, si è parlato solo nel periodo in cui l’informazione italiana aveva scoperto le combattenti donne e le sfoggiava nei propri tg in modo molto modaiolo e superficiale. Per il resto, è pressoché assente dall’informazione di massa.
La guerra civile siriana è il caso contemporaneo dove il dispositivo di disinformazione, censura e oscuramento intenzionale della realtà è stato ed è massimo. La recente battaglia di Aleppo ha segnato l’acme storica dello sforzo spettacolare mondiale di creare una distorsione o quantomeno un pilotamento dei fatti. I ribelli siriani, ossia quei gruppi armati che si sono mossi a partire dal 2011 in alcune regioni occidentali della Siria, sono stati ben presto egemonizzati in un’ottica salafita, corrente dell’Islam che vuole il ritorno alla sharia [la legge sacra islamica, ndr] del VII secolo d.C, secondo una visione fortemente reazionaria della società e della religione musulmana. Non è un caso che i media occidentali abbiano smesso quasi subito di parlare della lotta armata contro il regime siriano e quando lo fanno utilizzano questi termini vaghi, che impediscono al lettore o all’ascoltatore di capire. Se l’opposizione radicale è costituita da forze come l’Isis e come Fatah al-Sham, che una volta si chiamava Jabhat al Nusra e che altro non è che la declinazione di al Qaeda in Siria, l’opposizione moderata sarebbe formata da gruppi come Jaysh al-Islam e Ahrar al-Sham, ma sono anch’essi gruppi salafiti nell’ideologia. Il fatto che non siano designati come organizzazioni terroristiche è indice di come questa designazione sia il frutto dell’etichettamento arbitrario che ogni governo fa del proprio nemico. Questi gruppi non sono infatti tanto diversi dall’Isis o da Fatah al-Sham.
Quindi c’è un doppio binario immotivato nella valutazione delle forze ribelli al regime siriano.
Certamente. Gli USA non hanno interesse, oggi, a supportare l’Isis, che è fonte di instabilità e di attacchi verso l’Occidente, e non hanno interesse a supportare al Qaeda, essendo il network internazionale che ha più volte attaccato gli USA e potrebbe farlo in futuro. Invece le organizzazioni salafite di cui ho appena parlato, non avendo mai attaccato l’Occidente o espresso l’intenzione di farlo, vengono supportate, sebbene i loro metodi con la popolazione siriana siano identici e sebbene le condizioni di vita di chi sta sotto il loro scacco siano dure tanto quanto quelle di chi vive sotto l’Isis o sotto il regime. Erano proprio questi gruppi a tenere in ostaggio i quartieri di Aleppo est in questi ultimi mesi. Per questo, è di un’ipocrisia colpevole affermare che questi gruppi non dovessero essere cacciati dalla città.
A proposito di Aleppo est, in questi giorni un giornalista, Fulvio Scaglione, sta proprio girando quella zona e sta scrivendo le stesse cose che stai affermando tu.
Conosco gli scritti di Fulvio Scaglione e lo ritengo un gran conoscitore della situazione siriana. Chiunque abbia a cuore la Siria non può che avere l’impulso a fare il possibile per informare le persone. I siriani sono ovviamente coloro che stanno soffrendo più di tutti per questo blackout dell’informazione, ma anche chi vive in Europa non merita di essere lasciato all’oscuro e di non potersi schierare in questo conflitto. Si può anche scegliere di rimanere indifferenti, ma sarebbe il caso che perlomeno questo avvenisse con consapevolezza.
Il problema è che fare una scelta netta tra i contendenti di questa guerra civile non è semplice perché dall’altra parte c’è Assad, che è un dittatore. Per cui, il sostegno al progetto della Confederazione democratica in Rojava è forse l’unica forma di sostegno possibile.
Certo. Il problema è che le persone non sanno che in Siria ci sono state, contro un regime sanguinario, ben due rivoluzioni parallele, quella confederale e quella teocratica. Se non c’è informazione, come può esserci un sostegno di massa alla rivoluzione confederale, che peraltro combatte direttamente contro l’altra, che è quella teocratica, sia nella forma dell’Isis, sia nelle altre forme salafite? I salafiti sono stati cacciati da Aleppo est non soltanto dal regime, ma anche dalle YPG, stanziate nella zona nord di Aleppo. Quando io ero in Siria, questi gruppi teocratici hanno continuato a bombardare, anche con armi chimiche, i quartieri delle YPG ad Aleppo. Questo mentre i loro rappresentanti venivano accolti con tutti gli onori a Ginevra dalle Nazioni Unite, che si prodigava nel legittimarli come opposizione moderata e legittima ad Assad. Per cui sì, non possiamo stare dalla parte del regime ma nemmeno dalla parte di chi vuole imporre un modello sociale che è forse peggiore di quello di Assad.
Ci puoi spiegare in che cosa consiste il progetto politico confederale?
Il progetto ha come presupposto che le diverse confessioni religiose e identità culturali del Medio Oriente – e del nord della Siria in particolare – debbano convivere pacificamente attraverso delle istituzioni comuni e popolari, diverse da quelle tradizionali, che hanno dimostrato di essere incapaci di garantire una vita pacifica e soddisfacente. Il secondo caposaldo è che per raggiungere questo risultato sia necessario sottrarsi alle manipolazioni che affliggono l’area mediorientale da oltre un secolo, da quando, cioè, è iniziata la dominazione franco-inglese, che ha reso endemiche le strumentalizzazioni delle varie fazioni settarie da parte delle potenze regionali e internazionali.
Il progetto curdo è anche un progetto fortemente anticapitalista, un altro motivo per cui non trova grande risonanza nella nostra informazione.
Indubbiamente. Si può prendere atto della profonda ignoranza che caratterizza il ceto giornalistico contemporaneo, però non è possibile che essa spieghi tutto. Non è casuale che per la resistenza di Kobane l’informazione italiana continuasse a celebrare i peshmerga, quando in realtà i peshmerga sono una forza irachena ascrivibile a un progetto politico di tutt’altro tipo e che non mette per nulla in discussione le architetture tradizionali della società. Questa è censura: i movimenti che possono minare certi assetti di potere non devono avere spazio. Le YPG e il PKK ne stanno pagando il prezzo. In Iraq, ad esempio, il PKK è visto come una forza salvifica, essendo intervenuto per salvare migliaia di persone che i peshmerga avevano lasciato nelle mani dell’Isis [ci si riferisce in particolare al massacro di Singal dell’agosto 2014, ndr]. Eppure si continua a insistere sul fatto che i peshmerga siano l’unica forza che sta combattendo lo Stato islamico in quella regione. Questo perché il PKK, che, come le YPG è una forza anticapitalista, è designato come organizzazione terroristica, mentre altri gruppi, maggiormente conservatori, no.
Dato che quando si parla di strumentalizzazione e di ingerenza straniera in Medio Oriente viene subito in mente la questione palestinese, vorrei capire come essa si possa inserire in questo discorso.
La Palestina c’entra moltissimo, intanto perché confina con la Siria e perché la vicenda palestinese e quella siriana sono sempre state collegate. Quando sono stato in Palestina, ho discusso coi palestinesi di quanto avviene in Kurdistan, perché penso che non possano essere indifferenti.
E inoltre molti palestinesi, profughi, vivevano o vivono in Siria.
Sì, e molti combattono con il regime perché il governo siriano ha sempre gestito i campi profughi palestinesi e quindi può ora usare i profughi come miliziani. Inoltre, la sinistra palestinese ha sempre visto un sostenitore, anche pratico, in Assad, per cui non può permettersi di inimicarselo. Hamas ha invece ritirato la propria delegazione da Damasco, come segno di opposizione al regime siriano, perché è supportato dal Qatar, il cui governo, a fratellanza musulmana, è uno dei massimi finanziatori dei gruppi di quel tipo in Siria. Purtroppo i palestinesi sul conflitto siriano sono molto divisi.
Concluderei con un cenno alla tua esperienza personale: presumendola emotivamente delicata, lascerei a te la libertà di dire quello che vuoi.
La prima cosa che vorrei sottolineare è che in qualità di giornalista indipendente ho avuto delle grosse difficoltà a svolgere la mia opera, soprattutto a entrare in Siria, a causa dell’embargo dell’informazione. Le resistenze le ho riscontrate anche da parte dei peshmerga, cui pure avevo detto che il mio scopo era documentare la situazione delle donne e dei cristiani nella Siria del nord. Ritengo importante che si sappia che la regione curda in Iraq, che è alleata del ministero degli esteri italiano, asseconda le imposizioni del governo turco non consentendo a nessun giornalista di andare a testimoniare quello che sta accadendo al popolo siriano.
Per il resto, l’esperienza in un esercito popolare mi ha fatto comprendere come combattere non sia un’attività neutra, che ha lo stesso significato ovunque: tutto quello che ho vissuto nelle YPG è infatti l’opposto di quello che uno si aspetta di vivere in un esercito regolare. Innanzitutto perché il ruolo preminente è quello femminile, non tanto a livello numerico quanto a livello di disciplina, esempio, consapevolezza politica, ruolo assembleare e in battaglia. E poi per le assemblee, che non esistono negli eserciti tradizionali: ogni giorno, ogni piccolo gruppo di combattenti ha la propria riunione e ogni settimana c’è l’assemblea di tutta l’unità, nella quale i comandanti possono essere criticati da chiunque, dal contadino iraniano analfabeta fino al medico siriano, benché questo ovviamente non voglia dire che le direttive dei comandanti non vadano eseguite. È davvero travolgente trovarsi immersi in un’ondata di rivoluzione animata da settori sociali così diversi tra loro, anche se, devo confessare, prevalentemente molto poveri. Inoltre, con i curdi del Rojava combattono anche battaglioni di arabi, turcomanni, assiri, armeni e di internazionali europei o americani, per cui l’esperienza umana è ricchissima.
Un’altra cosa che vorrei dire è che noto spesso lo stupore, durante gli incontri pubblici, per il fatto che i riferimenti alla mia esperienza diretta di combattimento non siano numerosi. Vorrei che si comprendesse che l’individuo occidentale, cresciuto con un’industria culturale spettacolare e catapultato in una situazione completamente estranea a tutto questo, prende coscienza del fatto che non si possa e non si debba raccontare tutto. La credenza europea che tutto vada raccontato e che ogni esperienza sia finalizzata soprattutto al racconto, come se il gesto non avesse autonomia e senso se non a partire dalla sua narrazione, entra in crisi in queste situazioni. In primo luogo, perché questa non è la cultura del luogo, e poi perché ci si accorge che si darebbe solo l’illusione alle persone di comprendere che cosa avvenga in quelle situazioni. Persino chi vede certe cose, fatica a credere di averle viste.
Anch’io, durante le situazioni di battaglia, ho avuto la sensazione che quello cui assistevo fosse solo una goccia nel mare di quello che avviene in Siria ogni giorno. Il sacrificio umano che c’è in questo momento in quel territorio è inimmaginabile e non può essere trasmesso, se non con una modalità che forse deve essere ancora elaborata, soprattutto da noi occidentali che ci consideriamo così consapevoli e che invece siamo visti in quei paesi come l’ultimo gradino dell’umanità. È brutto e triste ma va detto: l’Occidente è sentito dai mediorientali come un luogo irrecuperabile, in cui le persone vivono in una presunzione incomprensibile, preoccupate solo di riprodurre cinicamente i propri consumi. La loro conoscenza dell’Occidente è davvero superiore rispetto a quella che noi abbiamo dell’Oriente. L’invito è quindi quello di recarsi direttamente in quei luoghi, perché sono esperienze che cambiano la vita e che la rendono più consapevole e più vicina a quella di persone con cui potremmo avere relazioni stabili e amichevoli e a cui invece i nostri governi fanno patire situazioni infernali.