Il segreto del tasso [7]
gennaio 10, 2017 in Letteratura da Silvano Danesi
La processione in onore di Gwydd si snodò lentamente lungo l’impervio sentiero che congiungeva il fondo valle con la cima del monte dalle cui viscere gli uomini di Bar Ailt cavavano i minerali di rame.
Avanti a tutti, i druidi, con al centro Gwydd. Dietro le sacerdotesse e di seguito, in una lunga fila, l’intera popolazione.
Giunti sulla sommità del monte il corteo sostò nei pressi dell’altare di pietra. Gwydd fu fatto sedere e intorno a lui i druidi intonarono strofe di benvenuto. Al vecchio venuto da lontano furono offerti, simbolicamente, i prodotti del luogo: il pane di segala, il latte, formaggi, selvaggina e i pani di rame e di ferro, elementi essenziali della ricchezza locale.
Gwydd osservava quel mondo tanto diverso dal suo con gli occhi di un bambino. Nella sua vita, davvero lunga, non aveva mai abbandonato il gusto di nuovi incontri, dando ad ogni nuova conoscenza, anche se piccola e apparentemente insignificante, la massima attenzione. Sapeva, per esperienza, che a volte, nelle pieghe di un particolare si nascondeva la chiave della comprensione. Quando il rituale delle offerte fu finito, la processione riprese, lungo la via che collegava la montagna di rame con la fonte sacra, passava per il villaggio e conduceva ad un luogo dove druidi e sacerdotesse avevano identificato fonti energetiche particolari, adatte alla cura di molti malanni. Alla fonte sacra il corteo si fermò nuovamente. Gwydd raccolse nelle mani un po’ d’acqua e con un gesto rituale, ripetuto tre volte, si asperse la fronte e la testa, imitato da ogni uomo e da ogni donna del villaggio.
Il vecchio druida riprese a camminare lentamente. La strada scendeva abbastanza rapidamente per un breve tratto ed egli misurava ogni passo. Intorno la gente si stringeva, per osservarlo da vicino, coglierne un gesto, una parola.
Di lui le notizie erano giunte frammentarie e distorte, come spesso accade quando passano di bocca in bocca, per migliaia di chilometri, riportando usi e costumi di paesi lontani, spesso incomprensibili o, quantomeno, stravaganti. Quel che era certo, perché asserito dai druidi, era che i suoi poteri erano grandi, non tanto per la sua persona, che sia pure dotata di saggezza era quella di un comune mortale, ma per la sua dote di incarnare, quando si rendeva necessario, il Merlino. Ed era proprio per questi suoi poteri che il vecchio druida del Nord era arrivato sulle montagne italiche, in un luogo particolare, che aveva tutti gli aspetti di una porta del cielo.
La strada, dopo il primo tratto scosceso, assumeva un andamento leggermente declinante, portando, attraverso le balze e i campi coltivati, al villaggio. Superato un torrente, che faceva da confine occidentale e forniva acqua per tutte le necessità, il villaggio si presentava come un insieme di capanne ben ordinate, con il basamento fatto di muretti a secco, le pareti di tronchi e il tetto di rami e di paglia, strettamente intrecciati per evitare ogni infiltrazione d’acqua. Ogni capanna era dotata di un focolare ricavato nel granito e conteneva quanto bastava per vivere: un giaciglio, un tavolo, alcuni sgabelli a tre gambe, qualche masserizia. Il fondo della capanna era ricoperto di pietre e di argilla cotta e l’insieme era ordinato, pulito, nonostante la scarna essenzialità.
I Celti dedicavano grande attenzione alla cura e alla pulizia del corpo e dunque l’ordine e la cura della casa erano un corollario necessario al loro benessere. Vasellame, attrezzi di ferro e di rame, ciotole in legno e terracotta, servivano alla conduzione della vita quotidiana, nelle faccende domestiche e nel lavoro nei campi. Molta parte della vita si svolgeva all’aperto, attorno ai fuochi, nei campi, nelle occupazioni agricole, della pastorizia e dell’estrazione dei minerali. Attorno al villaggio macchie di faggio e di rovere si alternavano a boschetti di nocciolo. Grandi covoni di fieno, costruiti attorno ad un palo, servivano da riserva alimentare per le pecore, le capre e i bovini. Maiali, oche, anatre, galline, grugnivano e starnazzavano ovunque. Gli orti, ordinati e tenuti al riparo da muretti a secco e da intrecci di rami e di spine, davano frutta e verdura fresche. La birra non mancava e spesso si univa al vino italico importato dall’Etruria.
Il villaggio si animava, soprattutto la sera. Attorno ai fuochi uomini e donne parlavano della giornata, del tempo, dei lavori da fare, d’antiche leggende. In molte sere a venire Gwydd, anch’egli seduto accanto al fuoco, sorseggiando cervogia calda, avrebbe raccontato dei luoghi dove aveva trascorso gran parte della sua vita e dove l’acqua era salata e la gente, quando il grande mare si abbassava, entrava nella laguna e prendeva i pesci con le mani. Racconti che lasciavano i bambini incantati e uomini e donne sbalorditi nell’accostarsi a un mondo che mai avrebbero immaginato potesse esistere: l’oceano, con il suo fascino tenebroso e cosmico, le maree che inghiottivano e risputavano la terra. Storie di avventure tra le onde, per grandi battaglie contro gli invasori venuti dal Nord o per le battute di pesca. Racconti drammatici di naufragi e di miracolosi salvataggi, dovuti all’intervento delle divinità del mare, che accompagnavano e proteggevano i marinai. Storie di pietre vive, attorno alle quali particolari energie potevano guarire. Racconti di incantesimi, di sfide nell’arte della poesia e del bel canto.
“Gwydd, la risacca, la risacca. Cos’è la risacca?”.
“Gwydd, perché il mare urla?”.
“Gwydd, quanto è grande l’oceano?”.
Gwydd, pazientemente, avrebbe risposto a tutti e in molte serate, con la semplicità di chi ha a lungo meditato su ciò che ha da dire e che ben conosce quanto dice, avrebbe attorno a quei fuochi instillato nel popolo di Bar Ailt preziose gocce del sapere universale del quale i druidi erano attenti cultori.
In quella prima sera che segnava la fine delle cerimonie per il suo arrivo Gwydd avrebbe invece ascoltato. Sui fuochi giravano gli spiedi di cinghiale e di cervo. Nei calderoni bollivano le carni di due giovani tori, sacrificati per l’occasione. Il pane di segala cuoceva nelle fornaci e spandeva il suo profumo invitante. La cervogia era già nelle coppe e quando il corno suonò a lungo e per tre volte e per tre volte le cornacchie volteggiarono nel cielo ormai giunto all’imbrunire, la festa cominciò.
A Gwydd, troppo avanti negli anni e debole nel fisico, vennero serviti piccoli assaggi delle carni e delle erbe della montagna, raccolte e conservate nell’olio, che a Bar Ailt giungeva dai laghi e dalla pianura, dove tribù celtiche avevano imparato a produrlo dagli amici etruschi.
I bardi intonarono canzoni di sapienza e ballate di gioia e la serata durò a lungo, con i druidi e gli abitanti del villaggio che si alternavano nel raccontare al vecchio venuto dal Nord gli usi e i costumi di quel loro abitato alpino, fortunato per la posizione normalmente assolata e per le ricchezze che si nascondevano nel ventre della terra.
Poi venne il tempo del sonno. I fuochi furono spenti e nel villaggio regnarono il silenzio e il canto allegro e senza fine del ruscello.
La prima notte a Bar Ailt Gwyd la trascorse nella “Casa comune” dei druidi, accanto all’area sacra dei cerchi di forza. All’indomani sarebbe stato affidato alle cure di una sacerdotessa, che lo avrebbe accudito durante tutta la sua permanenza.